Non è tempo di annunci: le proposte #possibili sul caporalato
di Marco Omizzolo (anche su www.possibile.it)
Tutti ora hanno scoperto che nelle nostre campagne esiste
il caporalato. E tutti avanzano proposte risolutive del
problema con una disinvoltura che lascia
esterrefatti. Eppure il problema è noto da anni. La Flai-CGIL
da tempo pubblica un dossier dal titolo Agromafie e caporalato
con il quale fotografa il fenomeno dello sfruttamento e della
riduzione in schiavitù di migliaia di lavoratrici e lavoratori
agricoli, soprattutto migranti, denuncia il ricatto sessuale
praticato in alcune aree del paese, in particolare in Sicilia, e
raccoglie testimonianze anche nel Nord Italia dove
ugualmente vige la regola della prevaricazione del più forte sul
più debole. Il Nord Italia non è infatti esente dal fenomeno. Area
dove la Lega è particolarmente forte, sostenuta anche da quei
padroni che la sera urlano contro gli immigrati, ansiosi di
accendere ruspe e falò, mentre la mattina raccolgono, coi loro
furgoni, braccianti indiani, africani e italiani per farli lavorare
nel loro campo a tre euro l’ora.
La pubblicistica in materia ha ormai raggiunto un livello di
analisi senza dubbio rilevante. I dossier di Medici senza
Frontiere, di Amnesty, della cooperativa
In Migrazione, di Medu o di
Filierasporca e non solo, hanno denunciato le
condizioni di lavoro e di salute di migliaia di braccianti in Italia
e le responsabilità di un sistema che comprende molti attori
(Migranti e territori, Ediesse editore). Si consideri che il
primo dossier di Medici senza frontiere è del 2005 e certo
all’epoca la politica non è intervenuta nel merito del problema
come poteva e doveva fare. I servizi di Fabrizio Gatti in
Puglia già nel 2006 raccontavano l’inferno delle nostre
campagne, dove si vive per lavorare e a volte si muore nel silenzio
generale. Accade ancora oggi. Appena qualche giorno fa la notizia di
un lavoratore migrante morto nelle campagne pugliesi di Rignano
Garganico, caduto in uno dei 57 cassoni di pomodori che aveva
raccolto durante il giorno. La vittima, originaria del Mali, aveva
circa trent’anni e del cadavere per ora non c’è
traccia, forse occultato dai caporali o dai padroni.
Recentemente la sociologa Fiammetta Fanizza su La
Gazzetta del Mezzogiorno si è correttamente domandata dove
siano l’Inps, la Guardia di Finanza e gli ispettori del lavoro.
Ha ragione Fanizza quando afferma che esiste una catena di
caporalato che ha completamente occupato uno spazio di mercato. Ed è
per questo che il complesso delle responsabilità e complicità va
molto oltre i soli padroni, sfruttatori e trafficanti di uomini e di
donne ma coinvolge esponenti politici, impiegati e funzionari
pubblici, liberi professionisti, in particolare avvocati, consulenti
del lavoro, ragionieri e commercialisti, insieme alla Grande
Distribuzione Organizzata, troppo poco chiamata in causa.
Le norme avanzate da tutti i governi nel corso degli anni hanno
avvantaggiato il sistema dello sfruttamento, sino a renderlo
vincente sul mercato locale e internazionale. Si sono continuati a
dare finanziamenti pubblici ad aziende amministrate da
truffatori, mafiosi e sfruttatori, si è eluso il
problema del caporalato nonostante la relativa legge,
impedendo che essa incidesse sui patrimoni dei padroni e delle
aziende, si è agevolata la Grande Distribuzione Organizzata
nascondendone la centralità, sinonimo di responsabilità diretta,
nel sistema di produzione agricolo e di sfruttamento della relativa
manodopera. I governi hanno attentamente evitato di
attaccare padroni e caporali, e con le loro riforme hanno
reso più difficile l’accesso alla giustizia da parte dei
lavoratori vittime di questo sistema, delle associazioni e
sindacati. La giustizia spesso non funziona e a farne le spese,
ancora una volta, sono i più deboli e i più fragili. In provincia
di Latina la coop. In Migrazione, ad esempio, ha aiutato un
bracciante indiano a presentare denuncia nei confronti del suo
datore di lavoro che per ben tre anni gli riconosceva appena 300
euro al mese per dieci ore di lavoro al giorno, sabato e domenica
compresi. Sono trascorsi due anni e ancora si deve tenere la prima
udienza. E nel frattempo quel lavoratore si è trasferito in altra
regione, peraltro insieme ai due testimoni che faticosamente aveva
cercato e trovato. È un caso banale ma eloquente. È quello che
capita quando lo Stato abdica ai suoi doveri ed è attento solo a
difendere imprenditori a prescindere dalle modalità della loro
condotta imprenditoriale (etica ed economica) e dal funzionamento
delle proprie strutture, soprattutto di quelle periferiche. Ora si
apprende che il governo avrebbe dichiarato guerra al caporalato. Non
può che essere un bene se ai proclami seguiranno atti concreti.
È tempo dunque di agire ma bisogna farlo con cognizione di
causa, evitando scivoloni clamorosi come quello di chi avanza, come
recentemente proposto da Roberto Saviano, modelli
impresentabili e improponibili come quello californiano,
in realtà fondato sullo sfruttamento dei migranti, soprattutto
messicani, e sul caporalato. Un sistema figlio della
ristrutturazione post-fordista dei sistemi produttivi, come afferma
la sociologa Alessandra Corrado, e della trasformazione dei rapporti
sociali. Nel modello californiano, solo per informare Saviano, il
ricorso al lavoro immigrato si configura come una “necessità
strutturale”, come afferma lo studioso Berlan sin dal 2002, in cui
i lavoratori devono essere disponibili quando richiesto dalle
esigenze della produzione, che non sono programmabili in quanto
mutevoli nel tempo e soggetti a variabili non determinabili. Insomma
si lavora secondo le necessità proprie della produzione con salari
che variano di conseguenza. Una produzione flessibile che rende
precario e sfruttato il lavoratore. Un modello da tenere
lontano da questo paese.
Esistono però alcune proposte dalle quali partire per un
ragionamento nel merito e qualificato. Proposte già avanzate e
pubblicate, per esempio nel volume Expo
della dignità di Catone e Boschini
(Novecento editore).
La prima è di natura politica e prevede di stare al
fianco dei lavoratori, di chi vive ogni giorno sul proprio
corpo lo sfruttamento, ovunque esso si manifesti, e reagire contro i
responsabili (non solo i padroni e i caporali ma anche i molti
consulenti del capitale) con una determinazione nuova, ad oggi
ancora solo annunciata.
Secondo poi, sebbene il reato penale di “intermediazione
illecita e sfruttamento del lavoro” del 2011 sia una vittoria
storica fondamentale, esso colpisce i “caporali” e non i
datori di lavoro responsabili dello sfruttamento. Il
“caporalato” è solo una delle forme dello sfruttamento
lavorativo; questo strumento normativo deve essere migliorato. Senza
questo cambio di prospettiva, si rischia di arrestare un
caporale (italiano o straniero) per sostituirlo con uno nuovo, a
vantaggio di imprese che violano i diritti umani insieme a quelli
dei lavoratori. Questa proposta forse vedrebbe la netta
opposizione di molte categorie datoriali, attente a difendere il
made in Italy nelle nostre piazze ma meno i diritti dei lavoratori
alle loro dipendenze, ma qualcuno in questa battaglia bisognerà
pure con determinazione convincere o scontentare. E ancora, il
Decreto legislativo n.109 del 16 luglio 2012 ha introdotto alcune
aggravanti al crimine di impiego di lavoratori migranti irregolari,
tra cui il caso di “condizioni lavorative di particolare
sfruttamento”, e la sanzione accessoria del pagamento del costo di
rimpatrio. In realtà, la Legge ha omesso di adottare alcune
misure non penali contro i datori di lavoro raccomandate dall’Unione
Europea, tra cui l’esclusione dai sussidi pubblici,
inclusi i finanziamenti europei, l’esclusione dalla partecipazione
ad appalti pubblici, la chiusura degli stabilimenti o ritiro delle
licenze e l’imposizione dell’obbligo del pagamento delle
retribuzioni arretrate ai lavoratori migranti irregolari. Tali
mancanze mettono in discussione il reale effetto protettivo della
Legge italiana sui diritti dei lavoratori migranti
irregolari, e oggi ne paghiamo le conseguenze.
Un’altra proposta potrebbe riguardare la promozione di
un DDL sul mercato del lavoro agricolo, affinché possa
essere gestito in modo pubblico e trasparente, e mediante il
coinvolgimento dell’Inps fare incontrare in tempi brevi e in modo
efficace domanda e offerta. Una proposta di buon senso che il
Ministro Poletti potrebbe fare sua.
Sarebbe utile anche il pieno ed effettivo recepimento nella
legislazione nazionale delle disposizioni in materia di parità
di trattamento sia relativamente all’accesso alle prestazioni
assistenziali che a quelle alla sicurezza sociale e la
cancellazione definitiva della Bossi-Fini è poi di
fondamentale importanza.
Infine, importante sarebbe la riconduzione del reato di
caporalato nel 416bis. L’associazione mafiosa è evidente
nel momento in cui le modalità di reclutamento e sfruttamento dei
lavoratori ne comportano la subordinazione attraverso atti violenti,
minacce, percosse continue, reiterate e non contrastate. La
politica deve rispondere presto a questa sfida assumendosi una
responsabilità storica senza precedenti. Sarà ora la
volta buona? L’eventuale fallimento dell’occasione che in queste
ore pare aprirsi può comportare una grande reazione civile del
mondo del lavoro; una mobilitazione che manifesti tutta
l’indignazione di chi ogni giorno è costretto a trascinare sui
campi agricoli le catene di questa nuova forma di schiavitù.
Proposte insomma che un governo attento dovrebbe cogliere, come dice
di voler fare, e sulle quali si potrebbe avviare una riflessione
qualificata e ampia. Perché si liberi questo paese dal
giogo della schiavitù, dello sfruttamento e delle mafie, e sia resa
giustizia a quei lavoratori e lavoratrici morte nei campi agricoli
per aver obbedito al loro caporale o padrone. Per loro
dovremmo agire quanto prima, andando ben oltre i proclami e gli
annunci.