L’Italia dei (tanti) doveri e dei (pochi) diritti
necessario che i figli debbano crescere con una madre ed un padre”, il leader del PD, Pierluigi Bersani ha risposto: “Abbiamo approvato dopo lunga discussione una
proposta che dice precisamente quello che faremo: una legge che
riconosca le unioni civili omosessuali secondo il modello tedesco che
non prevede l’adozione da parte delle coppie omosessuali, ma la
possibilità di esercizio dalla potestà genitoriale per una persona e il
riconoscimento di adozione del figlio di uno dei due membri della
coppia. Credo sia una posizione aperta ma abbastanza prudenziale”.
Il dibattito è ancora aperto, ma questo è un esempio del “deserto dei diritti” che ancora copre il nostro Paese, come sostiene Stefano Rodotà. Ricordiamo, a questo proposito, che è stato da poco pubblicato il nuovo saggio del giurista intitolato Il diritto di avere diritto, Editori Laterza.
Il grande deserto dei diritti
di Stefano Rodotà, la Repubblica, 3 gennaio 2013
Si
può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del
tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda
richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il
futuro.
Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano
un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è
caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le
conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel
disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità
dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti.
Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari
una nuova stagione dei diritti.
Vent’anni di Seconda Repubblica
assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge
sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e
alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del
matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà,
testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione
assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e
dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia,
di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del
campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti
italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di
quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così
confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si
sottovaluta l’importanza.
La considerazione dei diritti permette
di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima
Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni
dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale,
sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla
carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda
innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi
verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere
all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà
provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale,
sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui
diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei
luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni;
sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della
maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi,
l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario
nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e
ci consegna un’Italia più civile.
Non fu un miracolo, e tutto
questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi
era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e
consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non
levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto
di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo
sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato
come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata
così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba,
preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il
lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto
abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una
“legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia
finito?
Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può
offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque
pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel
bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti
fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile
dipendente dell’economia. Si dirà che in tempi difficili questa è una
via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le
risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono
significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura,
all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma,
prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere
considerato.
In un documento che insiste assai sull’Europa, era
lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere
verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura
esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa
dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio
europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo
l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la
piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che
avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che
diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la
riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che
riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il
“valore aggiunto” dell’Europa.
Inquieta, poi, l’accenno alle
riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la
via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione
dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e
alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie
all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo
articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo
per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del
terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due
necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale,
essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale,
considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i
diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli
alla distribuzione delle risorse.
Colpisce il silenzio sui
diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul
divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle
questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di
sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione
delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le
cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il
ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della
gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi
giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in
un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici
locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte
costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati
ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.
Queste
prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica
ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro.
Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica
ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica
“costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.