Sei traduzioni, un solo indagato
Il problema è un altro.
Il problema è che, da due anni, Mohammed Fikri resta l’unico indagato a causa dell’incapacità – da parte dei numerosi interpreti della lingua araba e consulenti del Tribunale – di tradurre in maniera certa e corretta una frase che il ragazzo marocchino ha pronunciato, al telefono, pochi giorno dopo l’omicidio della ragazza.
Il verbo che crea problemi di interpretazione è “qatala” che, in arabo, significa “uccidere”, ma è la pronuncia di due consonanti – la “q” e la “t” – a generare confusione. Nel corso delle indagini (e del tempo), infatti, sono risultate sei le traduzioni possibili della frase, tra cui: “Dio mio, Dio mio, non l’ho uccisa io”, “Dio, fà che risponda”, “Dio, perchè non funziona” etc., ognuna delle quali inserita all’interno di ipotesi e situazioni diverse. Lo stesso Fikri, in un momento di esasperazione, ha detto: “Nel mondo, un miliardo di persone parlano arabo. Perchè non mandate le mie telefonate ad Al Jazeera?”
Il muratore di cittadinanza marocchina non ha prove a suo carico, a parte la frase di cui non si accerta l’esatta traduzione. Non bastano le dichiarazioni del suo ex-datore di lavoro, il quale afferma che il giovane si trovasse con lui la sera dell’omicidio; nè valgono le intercettazioni telefoniche che lo scagionano; e nemmeno il test del DNA che non è compatibile con quello trovato sul corpo della vittima.
Fikri aspetta che siano fugati definitivamente i dubbi sulla sua persona, non trova più un lavoro, è continuamente oggetto di insulti e diffidenze.
Deve essere fatta giustizia prima di tutto per la ragazzina, ma non si può negare la vita anche ad un’altra persona solo per l’inefficienza e l’incompetenza di alcuni, se vogliamo parlare, ancora una volta, di un Paese civile.