A teatro per Una cena armena
un anno è in scena, nei teatri italiani, lo spettacolo intitolato
Una cena armena,
a cui sarà possibile assistere dal 21 al 23 marzo al Teatro
Tieffe-Menotti di Milano.
testo della pièce – prodotta da Màlbeck Teatro e Compagnia della
Luna – è scritto da Paola Ponti con la consulenza dell’artista
armena Sonya Orfalian autrice del volume “La cucina d’Armenia.
Viaggio nella cultura culinaria di un popolo”, contenente un
centinaio di ricette, frutto di una lunga ricerca storica ed
etnografica.
regia è di Danilo Nigrelli, sul palco insieme a Rosa Diletta Rossi.
Sono loro due, infatti, i protagonisti: un uomo, Aram e una ragazza,
Nina.
tempesta di neve costringe la giovane donna a chiedere rifugio nella
casa dell’uomo, forse un caso o forse no. Ma quell’abitazione,
all’apertura del sipario, è disabitata. Un tappeto di abiti,
disposti per terra con cura; corde appese a tiranti colorati che
pendono dall’alto a diverse altezze; come cadono dall’alto anche
alcune valigie, una è aperta, ma anch’essa vuota.
proprio il tema principale del racconto, un vuoto che i due
personaggi cercano di riempire, a fatica, con i loro ricordi, con la
loro irrequietezza. Un vuoto lasciato dal genocidio del popolo armeno
per mano dei turchi, nel 1915. Un pezzo di storia relativamente
recente, che molti ancora non conoscono e largamente rimossa dalla
diplomazia internazionale.
notte sogno di cucinare prelibatezze e di portarle nel deserto, dove
facevano camminare i prigionieri”, dice Aram; “Gli uccelli.
Qualcuno c’era a vegliare i morti. Le rondini hanno visto”, dice
Nina: sì, perchè Aram e Nina, in realtà, hanno un Passato comune:
lui vuole riportarlo alla Memoria e lei è desiderosa di capire. Lui,
figlio della diaspora armena e lei, sua nipote.
racconto è diviso in quadri intervallati da brevi stacchi musicali;
il testo è coraggioso e viene accompagnato da una regia coinvolgente
che restituisce la tensione emotiva delle due generazioni a
confronto. I dialoghi frammentati sottolineano la paura di riaprire
le ferite, ma insieme, l’urgenza di guardare l’orrore per non
ripeterlo.