Sta per piovere: il nuovo film di Haider Rashid, a cura di Alessandro Leone
anni, al terzo lungometraggio, il fiorentino Haider Rashid (padre
iracheno e madre italiana) porta nelle sale una storia emblematica di
una parte consistente d’Italia: ovvero il dramma della seconda
generazione, dei figli di immigrati che, nati su suolo patrio, sono a
tutti gli effetti anche figli del nostro Paese. Che poi vengano
riconosciuti come tali o siano percepiti come illegittimi è
questione centrale, per comprendere le trasformazioni in atto in una
società ancora refrattaria nel riconoscere pari diritti (leggi
cittadinanza, leggi dignità) a chi vive, lavora, paga le tasse, e
soprattutto si progetta in Italia.
Il paradosso contro cui si
trova a lottare Said, nato a Firenze da genitori che lasciarono
l’Algeria nei primi anni 80, costituisce la scarna sinossi del film:
il suicidio di un imprenditore toscano decreta la chiusura della
fabbrica in cui lavora Hamid. Senza contratto di lavoro l’uomo non
può rinnovare il permesso di soggiorno e, dopo trent’anni, riceve un
decreto di espulsione. Per i due figli, Said e Amir, comincia una
lotta impossibile che li vede a fianco del padre nella difesa del
presente e, quindi, dell’immediato futuro: Said è fidanzato con
Giulia, fa il panettiere, ha amici italiani, non conosce l’Algeria e
non ha mai pensato di viverci. L’incipit è significativo con il
ragazzo che si prepara alla finalissima degli europei di calcio che
vede l’Italia di fronte alla Spagna, cantando l’inno nazionale come
buon auspicio.
Non ci sono – e non dovrebbero esserci – dubbi a
riguardo, perché l’appartenenza culturale non è un foglio di carta
timbrato da un prefetto, ma una condizione esistenziale che ha a che
fare con il tessuto di relazioni ed esperienze formative/educative.
La Firenze di Said non è un luogo occasionale di transito, ma la sua
casa, una terra di affetti e passioni.
Così l’espulsione è un
insulto ingiusto e chiama alla battaglia legale, condotta in prima
linea da Said, che mobilita la stampa, le radio, le televisioni
private, i politici locali, abbagliati dal talento retorico del
ragazzo. Il caso diventa di dominio pubblico e scopre impreparato il
paese, deficitario, sfregiato da una legge difettosa che contraddice
i principi costituzionali.
Il regista ha dichiarato che le seconde
generazioni possono essere la chiave del rinnovamento culturale e
sociale a cui l’Italia aspira da tempo. Vivere in un limbo non
permette di trovare l’equilibrio tra radici profonde (l’origine dei
genitori) e legame con la terra natia. Connubio che invece dovrebbe a
buon ragione costituire il valore aggiunto, generare un dialogo che
da personale possa diventare collettivo e condiviso, capace di
spalancare scenari nuovi e suggestivi.
Se l’espulsione equivale
alla privazione delle libertà basilari, per Said diventa occasione
per riconsiderare l’Algeria come Terra originaria, innescando per
questo un processo, sempre rinviato, di esplorazione di una
dimensione culturale che aveva rimosso. Suggestioni che visivamente
cercano la strada della rappresentazione onirica, frammentando il
racconto con soluzioni espressive più libere.
Si perdona un
intreccio povero (volutamente, ma rischiando costantemente di cadere
nel film a tesi), per cogliere lo sforzo di definire nel combattivo
Said, l’alfiere della moltitudine silenziosa di
stranieri-non-stranieri che quotidianamente reagiscono all’espatrio
forzato. Il volto del bravo Lorenzo Baglioni si impadronisce dello
schermo, producendosi, prima del finale, in un monologo che lascia il
segno e che sancisce la sovrapposizione tra personaggio e narratore,
ovvero Said/Haider Rashid che afferma l’urgenza di raccontare ciò
che non può più passare sotto silenzio.
Aspettando che la
pioggia, che nel film si attende invano, lavi via le nostre vergogne,
in un clima culturale stantio, la domanda è: le produzioni italiane,
avare di sguardi “meticci” – mentre in Francia, Germania,
Inghilterra, le seconde (e terze) generazioni hanno da tempo
cominciato a raccontarsi – sono pronte a investire in autori che
favoriscano una riflessione sul presente davvero plurale?
Alessandro Leone |