Oltre la paura: un saggio sulle derive e le speranze di una società civile e democratica
da Feltrinelli, è da poco stato pubblicato il saggio Oltre
la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica di
Adolfo
Ceretti
e Roberto
Cornelli, docenti di criminologia presso l’Università di Milano
Bicocca. Sicurezza sociale, pene sicure, paura nella convivenza:
questi sono alcuni degli argomenti approfonditi nel saggio in cui si
parla anche di una dimensione penale e di politiche di sicurezza
democratiche da mettere in atto in funzione di una società,
finalmente, aperta e,soprattutto, civile. Senza perdere di vista i
diritti e i doveri che appartengono a tutti i cittadini.
Abbiamo
rivolto alcune domande agli autori.
Cosa legittima, oggi
in Italia, il sentimento della paura?
La
paura segnala l’imminenza di una crisi di sistema; è il sentimento
che più di ogni altro è in grado di significare la perdita di
certezze e l’isolamento dell’individuo di fronte a trasformazioni
epocali. In un certo senso è come se la paura della violenza avesse
oggi la funzione di ordinare l’esperienza quotidiana e gli
avvenimenti collettivi intorno a nuclei di significato condivisi.
Proprio come l’ira di Achille nel mondo antico: prendendo spunto
dalle riflessioni di Mario Vegetti, storico della filosofia antica,
come l’ira, rappresentata letterariamente nell’Iliade, costituiva
un’esperienza affettiva fondamentale in quanto reiterava la
riluttanza diffusa verso una condizione di perdita della libertà,
così oggi la paura – rappresentata nei luoghi della politica, nei
mass-media,
nella cinematografia e nelle fiction,
nei discorsi quotidiani – esprime l’inquietudine diffusa che si
possa regredire a uno stato di in-civiltà. Si teme di ritornare a
una condizione di homo
homini lupus,
di guerra di tutti contro tutti, di violenza incontenibile perchè
non più ingabbiata in quel progetto moderno fondato sull’idea di
Stato-nazione in grado di garantire sicurezza e promuovere libertà,
uguaglianza e fraternità.
Da chi e perchè viene
inculcata la paura? Forse per ottenere un maggior controllo della
società oppure per l’incapacità di gestire la criminalità?
Quel
che è certo è che la propagazione sociale della paura non dipende,
come si ritiene normalmente, da una sommatoria in crescita delle
paure individuali. I dati delle ricerche che citiamo nel libro
dimostrano una sostanziale stabilità dei livelli di paura della
criminalità negli ultimi 15-20 anni. E probabilmente non è neanche
semplicemente l’esito programmato di una manipolazione
politico-mediatica. Certo che esistono imprenditori della paura, che
speculano e costruiscono fortune e carriere sulla costruzione di
campagne di allarme sociale. Ma ciò che caratterizza questi anni,
rispetto a qualche decennio fa, è la pervasività dei discorsi sulla
paura. Emerge, cioè, una rinnovata centralità del sentimento della
paura come passione
collettiva,
intesa come stato affettivo diffuso che si costruisce culturalmente
in relazione a una certa idea di società e come apparato
significante,
che orienta le mentalità e sensibilità e il modo in cui percepiamo
ciò che sta intorno a noi. In questo modo, la paura entra, senza che
ci sia necessariamente una regia, nella politica, vale a dire nelle
decisioni e negli atti che organizzano la vita sociale e, prima
ancora, nelle mentalità e sensibilità che competono nell’orientare
quelle decisioni. La paura s’impone nei rapporti tra istituzioni,
fino a diventare, per esempio, la conditio
sine qua non
dell’accesso a finanziamenti pubblici: se non si descrive il
proprio territorio come insicuro e caratterizzato da allarme sociale
non si ottengono finanziamenti per riqualificare quartieri degradati,
per realizzare impianti di illuminazione nei parchi e per aumentare
la qualità dei servizi. La paura diventa criterio per la protezione
dei propri spazi vitali (casa, automobile) come per la progettazione
e la riqualificazione urbanistica di quartieri popolari delle grandi
città, ri-orienta i programmi sociali degli enti locali, ridisegna
gli spazi pubblici, ridefinisce la vita sociale, influisce sugli
stili educativi.
Quali sono, quindi, le
politiche in atto relative alla sicurezza? Potete farci alcune
esempi. E in che modo si potrebbe, invece, progettare una società
civile aperta e pronta all’inclusione?
“La
paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari”[1].
In queste poche parole di Tzvetan Todorov si condensa il circolo
vizioso della paura, la quale, in una sorta di profezia che si
autoavvera, legittima politiche che, con l’intento di rassicurare,
finiscono per produrre proprio quella regressione della civiltà
tanto temuta. La paura orienta e legittima comportamenti disumani,
restrizioni illiberali e politiche discriminatorie; sostiene e
attribuisce significato a innovazioni legislative e pratiche
amministrative che affermano un’idea distorta di cittadinanza la
quale si caratterizza sempre più marcatamente come dispositivo di
esclusione (e non più d’inclusione) dall’area dei diritti. I
casi sono innumerevoli, in Italia e all’estero: dalle Civility Laws
statunitensi all’introduzione del reato di ingresso illegale in
Italia, dagli Anti Social Behaviour Orders britannici alle ordinanze
dei Sindaci sulla sicurezza urbana, dalle restrizioni discimnatorie
nell’accesso ai servizi pubblici alla progettazione di spazi
blindati e di comunità chiuse.
interrompere questa spirale, nell’ultimo capitolo riflettiamo su
concetti (come fraternità, fiducia, eguale rispetto, libertà e
diritti, dignità, capacità) ed esperienze “esemplari” che a
essi si ispirano perché diventino nuovi vettori per ridirigere in
senso democratico le politiche pubbliche nel campo penale. Tra queste
esperienze diamo particolare risalto all’intuizione del Maestro
Abreu, consolidata nel Sistema delle Orchestre Giovanili del
Venezuela, di affrontare il problema delle sofferenze urbane fuori da
una logica assistenziale e caritatevole, per dotare le persone di
capacità. Abreu ha sottratto decine di migliaia di giovani dal
rischio di entrare in gang
criminali e violente, li ha riscattati da una situazione di miseria
materiale e spirituale, dando loro la forza per lottare per il
proprio futuro e per quello delle persone a loro vicine. Ci sembra il
modo migliore per dimostrare che un’altra sicurezza è
possibile.
Le città italiane –
anche dal punto di vista architettonico – sottolineano la necessità
di separare, dividere (per contenere l’ansia, la paura, le angosce)
invece di favorire le relazioni tra le persone…
Le
gated
communities
sono forse l’esempio più noto di come le città si stiano
trasformando attraverso
nuove forme di architettura segreganti ed escludenti.
Si tratta di comunità residenziali, generalmente abitate dalle
classi sociali agiate, i cui accessi sono controllati da guardie
giurate o da sistemi di videosorveglianza, e il cui perimetro è
costituito da mura o cancellate, coronate da filo spinato o
allarmate. Sono sempre più diffuse nei suburbs
delle grandi aree metropolitane, tra cui, in modo eclatante, quella
di Los Angeles. Ma è una tendenza che riguarda anche l’Europa e
l’Italia. Va detto che questa ricerca di un rifugio protetto non
produce quasi mai la sicurezza sperata. Numerosi studi hanno mostrato
come anche in luoghi blindati e apparentemente omogenei al loro
interno le paure si diffondono per una maggiore percezione del
rischio d’infiltrazione e d’ingresso di estranei all’interno di
un territorio ritenuto inviolabile, in modo direttamente
proporzionale all’ostentata chiusura degli spazi di vita.
Nel saggio si parla
delle carceri e degli ospedali psichiatrici: potete anticiparci il
vostro pensieri riguardo a questi istituti? E qual è la vostra
opinione sui CIE ?
Nel
saggio riflettiamo, col supporto dei dati e della letteratura
criminologica, sociologica e psichiatrica, sul processo di
de-istituzionalizzazione e nuova istituzionalizzazione nel campo
della salute mentale, sull’aumento della popolazione carceraria e
sul fenomeno poco studiato della psichiatrizzazione del carcere.
Più
in generale rileviamo come la domanda di sicurezza stia riportando in
auge la funzione d’incapacitazione dei delinquenti e,
parallelamente (come troppo spesso è capitato nella storia) dei
sofferenti psichici, accompagnata da discorsi neo-retributivi (“se
lo meritano”, “devono marcire in cella”, “bisognerebbe
buttare via la chiave”). La stessa logica incapacitante – che
nasconde alla città i problemi che non sa e non vuole affrontare –
sostiene l’operatività dei Cie e rischia di affermarsi, se non si
pone un argine anzitutto culturale, anche nel processo di
riarticolazione
istituzionale connesso alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici
Giudiziari posta dalla legislazione. Sono molti i motivi di
preoccupazione, primo tra tutti il fatto che le nuove strutture
sanitarie regionali atte a ospitare i sofferenti psichici socialmente
pericolosi finiscano col riprodurre surrettiziamente il modello
custodiale degli attuali OPG, privati persino delle garanzie formali
previste nel codice penale. Ma sappiamo che dal buon esito di questo
percorso dipenderà in parte il miglioramento delle prestazioni di
cura dei detenuti e quindi il rispetto di un loro diritto
inviolabile, quello alla salute.
[1]
T. Todorov, La Peur des barbares Au-delà du choc
des civilisations, Paris, Robert Laffont, 2008, tr. it. di E.
Lana, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Milano,
Garzanti, 2009, p. 16.