Una ragazza americana e la pace in Medioriente
Aveva
ventitre anni, Rachel Carrie. Era una ragazza come tante altre:
problematica, idealista, diretta, gran fumatrice. Un giorno decide di
lasciare la sua città, Olympia nello Stato di Washington, per andare
a lavorare a Rafa, sulla striscia di Gaza, come membro
dell’International Solidarity Movement.
marzo 2003 Rachel fa scudo con il proprio corpo per impedire la
demolizione di una casa palestinese e viene schiacciata da un
bulldozer dell’esercito israeliano. Il suo sacrificio è diventato
simbolo di una pace ancora lontana.
al 16 maggio 2013, presso il Teatro Sala Fontana di Milano, verrà
messo in scena lo spettacolo dal titolo Mi
chiamo Rachel Carrie, per
la regia di Alessandro Fabrizi e Cristina Crippa, qui anche attrice
protagonista.
palco è spoglio: dal graticcio scendono pietre sospese, come subito
dopo una deflagrazione. Gli oggetti appartenuti a Rachel – il
computer, il diario, lo zaino – parlano di lei: della sua infanzia di
bambina qualunque, della sua adolescenza vissuta con uno sguardo
attento e critico sulla realtà, della scuola, dei primi amori e poi
della scelta dell’impegno civile.
Pina recita con semplicità, ma – con lo scorrere delle parole tratte
dagli scritti di Rachel – la forma teatrale lascia il posto
all’emozione del contenuto. Il climax si fa ascendente fino a quando
la donna spiana sul paviento una grande mappa geografica, ci si
accovaccia sopra, la calpesta e piange. Ma lo strumento più
importante per parlare della vicenda della ragazza americana e del
conflitto israelo-palestinese è quello della parola. Restano come
ferite aperte, come testimonianza e colpi al cuore gli scritti di
Rachel (curati per lo spettcolo da Alan Rickman e Katharine Viner):
le frasi sui suoi diari, le mail che mandava alla famiglia, gli
appunti, le lettere. Tutto questo compone il monologo che si fa sfogo
e riflessione e che insegna il coraggio della consapevolezza.
Rachel Corrie |