Morsi, iconografia di un martire annunciato, di Laura Silvia Battaglia
questo articolo di Laura Silvia Battaglia (www.battgirl.info),
ringraziandola tantissimo
ritratto di Mohamed
Morsi
campeggia ovunque. Sui
volantini distribuiti dopo la preghiera dell’alba, sugli autobus
bianchi dei Fratelli Musulmani parcheggiati all’ingresso del grande
campo di Rabaa al-Adawjia, sui carretti della distribuzione di the,
acqua, bevande e succo di melograno che punteggiano la via per
arrivare alla roccaforte della protesta anti-generali.
Il volto del politico che Time
incoronò “uomo dell’anno” nel 2012 è replicato
ossessivamente, come in un videogioco a punti con una grafica
splatter, sopra, sotto e di fronte alle migliaia di tende che
ricoprono questa superficie di quasi quattro chilometri quadrati al
Cairo brulicante di supporters dell’ex presidente egiziano dal 3
luglio 2012, data del suo arresto con l’accusa di cospirazione.
Mohamed Morsi qui è onnipresente,
guarda i suoi fedeli dall’alto del suo ritratto peggiore,
ingessatissimo nel fermo immagine che sancisce la sua sacralità.
Così replicato ovunque appare come un cento occhi e centoteste, una
creatura medievale dalla faccia presentabile che si allunga sugli
esiti del colpo di stato di un mese fa. Un colpo di stato che
chiunque si guarda bene, qui, a Rabaa al-Adawjia, dal definire
seconda rivoluzione o contro-rivoluzione.
Mohamed Morsi, ora prigioniero a
Nord del Cairo, dove si trova il ministero della Difesa, è colui nel
cui nome si circoscrive la preghiera dell’alba di Eid, e che nel
giorno più importante dell’anno per la Umma sunnita si manifesta al
campo di Rabaa nel pomeriggio, per interposta persona: la moglie
Nagla Mahmoud.
Per lui si chiede la liberazione e
nel suo nome viene già giustificata la resistenza dei Fratelli
musulmani verso l’apparato di potere dei generali, che ha utilizzato
l’esito delle votazioni prima, il temporeggiamento dei Fratelli poi,
la loro interpretazione integralista della futura costituzione, per
riprendere con la forza il controllo di un Paese ormai allo sbando,
economicamente piegato da una credibilità ai suoi minimi storici.
“Io amo Morsi”; “Morsi,
Morsi, in te la speranza”; “Morsi Morsi sempre Morsi, mai
più Al Sisi”: sono alcuni degli slogan che campeggiano insieme
all’immagine dell’ex presidente egiziano. Si alternano anche sulle
fasce – verdi, nere, marroni – che la gioventù
ihwanizzata sfoggia
intorno alla testa, replicando l’iconografia jihaddista in forme
moderate: “Il popolo arabo è la comunità islamica”.
“Siamo arabi, moriremo islamici”.
L’appartenenza alla Umma sunnita,
per i Fratelli musulmani, non si discute. Vale per tutti, da
qualsiasi grado di vicinanza o distrazione del partito e dalle sue
istanze si stia parlando. Ed è perfettamente connaturata con
l’interpretazione del rispetto dei diritti umani che, per i
supporters di Morsi, discende solo da Dio ed è strettamente
collegata alla legge di natura che segue i dettami di Allah, secondo
quanto ne rivelò Mohammed.
Lo dice senza tema Sara
Hassan,
ventenne di El-Adwah, la città di nascita dell’ex presidente oggi
ostaggio di Al Sisi. La sua famiglia è cresciuta accanto a Morsi. In
senso letterale, perchè sono sempre stati suoi vicini di casa. Hanno
piantato una tenda da giorni e hanno pure affittato un appartamento
in zona per stare più comodi. Ci sono tutti: padre, madre, cugini,
fratelli e sorelle, zie e nipoti. Morsi per tutti, tutti per Morsi,
insomma. Ma la motivazione che li spinge fin qui non è squisitamente
politica. L’ideale di famiglia e l’appartenenza alla Umma sono
abbastanza. Ma la conoscenza diretta del personaggio spiega ancora di
più la scelta di stare dalla sua parte, costi quel che costi. Dice
Sara: “Noi lo conosciamo: è un uomo buono. L’hanno esposto e ne
paga il prezzo. Adesso è in carcere e siamo certi che il trattamento
riservatogli non è umano”.
Chiediamo che tipo di valenza ha il
concetto di rispetto dei diritti umani per i Fratelli Musulmani.
Risponde: “Il rispetto dell’uomo viene dal fatto che l’uomo
appartiene a Dio”. E chi non appartiene a quel Dio? “Non
saprei. Quel che so è che l’Egitto è un Paese islamico, noi siamo
islamici e Morsi è il nostro presidente. Nell’Islam il rispetto
dell’uomo viene dalla sua conoscenza di Dio. Morsi è un uomo
timorato di Dio, ha portato avanti la nostra causa, noi dobbiamo
adesso batterci per lui”.
Sara è una ragazza laureata,
progressista, una giovane donna musulmana tosta, pronta per fare una
buona carriera nei quadri dei Fratelli, se le fosse data la
possibiità. Morsi per lei è già un mezzo martire. E lo è per
tutte le persone, che, sulla strada del campo, lastricata da molte
buone intenzioni, lo hanno eletto a icona della rivoluzione
incompiuta o, meglio, ingiustamente ribaltata. La sua detenzione,
nonostante Morsi sia inizialmente asceso al ruolo di guida dei
Fratelli quasi come un ripiego necessario, ne ha già fatto un
gigante morale.
Se il nuovo governo non dovesse
scarcerarlo, se lo processasse o se in qualche modo se ne favorisse
la morte, gli effetti saranno amplificati sugli ihwan
egiziani ma anche su tutti gli arabi sunniti del Medio Oriente. Alla
causa palestinese per la quale tutti i popoli arabi si sono sentiti
in dovere di aderire nella lotta comune, se ne potrebbe aggiungere
un’altra.
Sarebbe il primo caso in cui
parrebbe possibile incitare alla resistenza – dei fedeli prima e al
martirio dei combattenti poi – per difendere un leader pacioccone e
perditempo, un martire in
pectore che non si sarebbe
davvero speso con opere o azioni degne di nota per il suo popolo di
elettori e, soprattutto, per un Paese dalla storia ingombrante.
Lo scorso 29 luglio, ormai
conosciuto come “il massacro di Rabaa”, nella roccaforte
dei pro-Morsi sono morte 127 persone e 4500 sono state ferite negli
scontri con l’esercito e la polizia. Chiedevano tutte di
relegittimare Mohammed Morsi come presidente dell’Egitto.