Anniversario di un discorso ancora attuale
have a dream that my four little children will one day live in a
nation where they will not be judged by the color of their skin, but
by the content of their character…”
sono ancora attuali e importanti le parole del celebre discorso che
Martin Luther King pronunciò esattamente cinqunat’anni fa, il 28 agosto
1963. Parole importanti per il mondo e per un’Italia in cui si
insultano ancora calciatori e ministri di colore.
Washington decine di migliaia di persone si sono riunite davanti al
Lincoln Memorial per celebrare l’anniversario del pastore
protestante: un discorso, una preghiera a favore dei diritti civili
dei neri. Quel giorno del ’63 radunò 250.000 persone: 50.000
afroamericani e i “big six”, i sei rappresentanti delle più
importanti organizzazioni internazionali che operavano per affermare
i diritti civili. Quella fu denominata la “Marcia per il lavoro e
la libertà”, una manifestazione pacifica, ma fondamentale con la
quale furono avanzate richieste chiare, tra le quali: una precisa
legislazione sui diritti civili; la fine della segregazione razziale,
soprattutto nelle scuole; stipendi adeguati alle prestazioni di
lavoro; e lo stop alla brutalità della polizia nei confronti degli
attivisti.
la marcia del 1963 e senza coloro che vi hanno parteciapto non sarei
il Ministro della Giustizia”, ha affermato Eric Holder il primo
afroamericano diventato Ministro negli Stati Uniti, il quale ha
aggiunto: “…la nostra attenzione ora si è ampliata. Include le
donne, i latinos, gli asiatici americani, i gay e le elsbiche, le
persone disabili e tutti coloro che nel Paese reclamano ancora
uguaglianza. Ritengo che nel 21mo secolo vedremo un’America più
perfetta e giusta”.
hanno preso parte alle celebrazioni anche il Presidente Obama e Jimmy
Carter, ma noi vogliamo chiudere ricordando anche le parole
pronunciate dal figlio maggiore di M.L. King, Martin Luther King III:
“ Non è il momento delle commemorazioni nostalgiche. E non è il
momento delle autocelebrazioni. Il lavoro non è finito. Il viaggio
non è completato, possiamo e dobbiamo fare di più”.
del discorso di Martin Luther King
Sono felice di unirmi a voi in
questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per
la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande
americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama
sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un
grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati
bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba
radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il negro ancora
non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo
paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della
discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola
di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale;
cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società
americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi,
per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso
siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando
gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della
Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un
“pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede.
Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i negri
tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili
della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
E’ ovvio, oggi, che l’America è
venuta meno a questo “pagherò” per ciò che riguarda i suoi
cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo,
l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che
si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”. Noi ci
rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi
caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo
venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a
presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di
giustizia.
Siamo anche venuti in questo
santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata
dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere
che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del
gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della
democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata
valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo
è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili
dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza;
questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di
Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno
l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima
impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato
raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un
inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare
un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un
rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente
fosse successo.
Non ci sarà in America né riposo
né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro
diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a
scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà
sorto il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’è qualcosa che debbo dire
alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al
palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta
meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.
Cerchiamo di non soddisfare la
nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del
risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano
alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la
nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo
continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza
fisica con la forza dell’anima.
Questa meravigliosa nuova militanza
che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una
mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei
nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono
giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e
sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata
alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è
fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà
essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare
da soli.
E mentre avanziamo, dovremo
impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare
indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti
civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?” Non saremo mai
soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a
cui viene sottoposto dalla polizia.
Non potremo mai essere soddisfatti
finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non
potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi
delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti
sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un
ghetto più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti
finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da
cartelli che dicono:”Riservato ai bianchi”. Non potremo mai
essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno
votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui
votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la
giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume
possente.
Non ha dimenticato che alcuni di
voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi
sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni
di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha
lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle
raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della
sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la
sofferenza immeritata è redentrice.
Ritornate nel Mississippi;
ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in
Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai
ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa
situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare
nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che,
anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani,
io ho sempre davanti a
me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno
americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà
fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia
questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io
ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della
Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di
coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al
tavolo della fratellanza.
Io
ho davanti a me un sogno,
che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo
dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza
dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e
giustizia.
Io
ho davanti a me un sogno, che
i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella
quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le
qualità del loro carattere. Ho
davanti a me un sogno, oggi!
Io
ho davanti a me un sogno, che
un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna
saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi
tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli
essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza.
Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di
strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie
della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di
lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare
insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un
giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di
Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce
terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri,
terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la
libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa
questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle
poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti
Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne
Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci
pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone
Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout
Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e
monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la
libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da
ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel
giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili,
cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le
parole del vecchio spiritual:“Liberi
finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi
finalmente”.