Documentare la realtà: con immagini e parole
Giuliani, a poco più di 30 anni , è un fotografo già affermato,
con sedici anni di professione, pubblicazioni e riconoscimenti
internazionali.
reportage hanno raccontato la crisi economica e la desolazione
dell’Argentina; gli orrori dei conflitti in Afghanistan e nei Paesi
della ex Jugoslavia; hanno denunciato le sterilizzazioni forzate in
Perù e sono state utilizzate dal Tribunale Internazionale come una
delle prove per accusare di violazione dei diritti umani il regime di
Alberto Fujimori. E non solo: Alberto Giuliani ha raccontato le
mafie, con le sue immagini (“Malacarne
– Vivere con la mafia”)
e con uno spettacolo teatrale, preparato e scritto insieme a Roberto
Saviano.
E’ uno dei soci fondatori di Luz Photo: tutto è cominciato tre anni
fa, al momento della chiusura di Grazia Neri, agenzia che ha fatto la
storia della fotografia italiana, per la quale il fotoreporter ha
lavorato quindici anni. Ma oggi Alberto ha avuto un’altra idea
interessante: usare la fotografia come narrazione di storie. E’
diventato, quindi, uno “storyteller”, un cantastorie contemporaneo
e ha voluto condividere le storie che scopre, che raccoglie, che
ascolta con i lettori del sito www.albertogiuliani.com,
un lavoro che viene così presentato: “Ci sono fotografie che non
ho mai fatto. Perchè difronte all’urgenza della vita non esiste
altro che la nuda condizione umana. In quei momenti, la parola unita
all’ immagine, è stata la scelta più dignitosa che io abbia trovato
per raccontare. Nell’umana fantasia di sopravvivere alla vita”. Un
lavoro nato anche perchè, ci ha detto: “ I giornali italiani sono,
ogni volta, meno attenti alle storie che trattano argomenti che hanno
a che fare con il sociale. Va preso, da un lato, come un vero e
proprio allarme, dall’altro come un’opportunità perché sono
certo che rimangano argomenti di interesse collettivo”.
seguito troverete una parte dell’incontro con il fotografo, che
abbiamo registrato per voi durante la manifestazione “Canon light
experience”.
PROPONIAMO LA STORIA di Giulia Tamayo, tratta da Storyteller
di cuore Alberto Giuliani per averci fatto questo regalo.
Giulia Tamayo, a
life for justice
21 settembre 2013
Il
telefono squillò una tarda notte di novembre. “Ce l’hai ancora
le fotografie che avevi fatto in Perù? Tirale fuori, perché questa
volta diciamo la verità”.
Era la voce di Giulia Tamayo al telefono, piena come sempre di
entusiasmo.
L’ultima volta che l’avevo
incontrata, era a Madrid alcuni anni fa, quando quel foulard colorato
a coprire il capo e la chemioterapia, la faceva sembrare un pirata.
Anche in quei mesi cupi della sua vita, non si è mai arrestata nella
guerra alle ingiustizie del mondo. Con i suoi modi diretti, la voce
sempre dolce, quel fuoco interminabile di amore per gli altri, Giulia
ora mi raccontava che il Governo Peruviano di Humala ha deciso di
riaprire il caso delle sterilizzazioni forzate. “Ora, finalmente,
possiamo dire la verità perché sia resa giustizia” mi disse.
Penso sia oltremodo presuntuoso
credere che la fotografia possa cambiare il mondo. Ma almeno in
questa storia ha sicuramente contributo a migliorarlo. Tra il 1995 e
il 2000 in Perù, il Governo Fujimori sterilizzò con la forza, e nel
silenzio, quasi un milione e mezzo di donne. Solo una voce si alzò
contro questo crimine e fu quella dell’avvocato del popolo Giulia
Tamayo, dal suo piccolo ufficio di Lima. Cercarono di abbatterla in
tutti i modi, con qualsiasi violenza, attentato, meschinità. E forse
ci sarebbero anche riusciti, se in qualche giornalista straniero non
si fosse risvegliato il senso etico. Io fui il primo a chiamare
Giulia, dopo aver letto un piccolo trafiletto sul quotidiano Spagnolo
El Pais.
“Vieni a vedere con i tuoi occhi” mi disse, e mi accolse in casa,
con un sentito benvenuto, per più di un mese. La seguii in una lotta
che sembrava a tutti senza speranza. Ma il profondo senso di
giustizia di quella donna e le sue capacità professionali,
riuscirono a inchiodare il Presidente Alberto Fujimori davanti al
tribunale internazionale per i diritti umani. E sul tavolo delle
Nazioni Unite, insieme alle migliaia di pagine di testimonianze
raccolte negli anni da Giulia, c’erano anche le mie fotografie
pubblicate sui giornali di mezza Europa.
© Alberto Giuliani |
Non aver abbassato la testa,
l’abitudine alla verità e alla libertà, le costò l’esilio.
Scappò dal Perù una mattina di maggio del 2000, mentre il governo
di Fujimori sferrava l’ultimo feroce colpo di coda sul suo popolo.
L’ambasciata spagnola chiamò Giulia offrendole asilo, e pregandola
di andarsene immediatamente, senza neppure prendere niente da casa.
Così ce ne andammo anche noi da Lima, un paio di anni prima, io e
alcuni colleghi della televisione portoghese SIC. La casa di Giulia,
nella quale ero ospite, era circondata dai servizi segreti e tutto
faceva pensare che presto avrebbero sequestrato a me e alla troupe
televisiva il materiale raccolto, con non si sa quali metodi. Fu
Giulia, data la situazione, a consigliarci di chiamare le nostre
ambasciate e di farci accompagnare subito fuori dal Paese.
Oggi Giulia ha 53 anni, vive a
Madrid con i suoi figli e con il marito Chema. O come dice lei, il
suo complice. Cita spesso Gandhi e sorride sempre. Sottovoce dice che
il suo paese è l’umanità, ma vorrebbe poter dire un Perù libero.
Esulta per il movimento degli indignados
e del 15M,
“perché da tutta la vita aspettavo un movimento popolare veramente
democratico”. Facebook e Twitter sono diventati i suoi strumenti di
indagine, alla guida straordinaria delle equipe investigative di
Amnesty International.
“Se la gente crede che può fare
cose magiche, farà cose magiche. Abbiamo riempito librerie di testi
sulla libertà e sulla giustizia, ma la fratellanza è qualcosa che
si può solo provare. Il mio merito è solo quello di contagiare
l’illusione che sia possibile. E investigare. Sono le uniche cose
che so fare”.
Da quando ha lasciato il Perù ha
vinto molte battaglie in Spagna, in Europa e nel mondo. Ha ricevuto
la prima chiamata di Tony Miller che grazie a lei, dopo 20 anni,
usciva vivo dal braccio della morte Texano. “Buongiorno Giulia,
anche se non ti conosco volevo dirti che ringraziavo il cielo ogni
volta che in questi anni ho sentito pronunciare il tuo nome”.
© Alberto Giuliani |
Nonostante tutto però, Giulia non
si da pace perché i colpevoli delle sterilizzazioni non sono mai
stati puniti. Il precedente governo ha addirittura tentato di
prescrivere il reato definendolo un “disservizio” del sistema
sanitario. Quando le parole più giuste sarebbero crimine di lesa
umanità, genocidio, crimini di guerra.
Giustizia e verità le deve a se
stessa, a tutte le donne che con lei hanno lottato, e le deve
soprattutto alla sua amica Maria Elena Moyano, che alla libertà ha
dato la vita.
Nei suoi primi anni di attivismo,
quando il Paese era martoriato dalla guerra terrorista di Sendero
Luminoso, Giulia divenne amica e legale di Maria Elena, la principale
leader popolare del Perù.
Era il febbraio del 1992, quando i
Senderisti imponevano alle comunità Andine il coprifuoco. Maria
Elena, quella stessa notte, uscì con altre donne per le strade
deserte di Ayacucho, cantando “el miedo se acabò”; la paura è
finita. La sera successiva, era il 14 febbraio, una edizione
straordinaria del telegiornale annunciava l’assassinio di Maria
Elena Moyano. Fatta saltare in aria con la dinamite davanti ai suoi
figli.
© Alberto Giuliani |
Il terrore avvolgeva ogni uomo e
ogni cosa, al punto che nessuno ebbe il coraggio di rendere omaggio
al corpo di quella donna straordinaria. Sola, Giulia, si aggirava nel
silenzio gelido dell’obitorio firmando per il riconoscimento di ciò
che restava della sua amica. In un angolo, una donna con un bambino
al seno. Una compañera coraggiosa pensò Giulia. Le si avvicinò e
l’abbracciò con affetto. La donna le disse: “cagna femminista,
ti ammazzeremo”. Il 20 febbraio spararono a Giulia, riuscendo però,
solo a gambizzarla.
Giulia non ha mai dimenticato
l’amicizia e il coraggio di Maria Elena, e la porta nel cuore
ancora oggi, quando col marito Chema intorno al tavolo della loro
casa nella periferia di Madrid, suona la chitarra e canta che “la
verità non è mai triste, è solo che non ha rimedio”, stringendo
forte gli occhi per non piangere, di nostalgia e d’amore.
Giulia era diventata l’avvocato
di tutte le donne del Perù, denunciando senza paura qualsiasi
violenza, di mariti, padri, generali o presidenti. Quando nel 1992
l’arrivo di Alberto Fujimori, segnò la fine delle stragi
Senderiste, e si contavano le 69.280 vittime civili, la sensibilità
di Giulia intuì che la guerra non era affatto conclusa, ma si erano
solo spostati gli equilibri. E oggi la verità le da ragione.
L’incremento demografico globale,
e le possibili conseguenze Malthusiane, portarono i governi di tutto
il mondo a confrontarsi su questi temi. Un’esponente dell’ONU a
dichiarò che “l’utero può essere più pericoloso della bomba
atomica”. Quando nel 1995 a Pechino, alla Conferenza Mondiale delle
Donne organizzata dalle Nazioni Unite, Alberto Fujimori tenne il suo
discorso, venne accolto trionfalmente da tutti. Solo Giulia, seduta
in prima fila, rabbrividì al vederlo sul palco, con in mano un mazzo
di fiori offerto simbolicamente a tutte le donne. Fujimori era
l’unico capo di stato uomo a prendere la parola durante la
conferenza, e con orgoglio proclamava l’impegno del Perù nella
lotta alla povertà e all’uguaglianza sociale lanciando una
“strategia integrale di pianificazione familiare, che per la prima
volta nella storia del Perù affronterà definitivamente la carenza
di informazione e servizi, perché le donne dispongano con autonomia
e libertà della propria vita”.
Il risultato di quella promessa
fatta al mondo, fu quel milione e mezzo di donne sterilizzate contro
la loro volontà, e tra queste un numero imprecisato di vittime per
le gravi carenze sanitarie e igieniche nelle quali gli interventi
chirurgici venivano condotti.
Il primo allarme arrivò a Giulia
nel 1996 dalle sue amate comunità andine. Fu Ilaria, giovane leader
femminista di Cuzco che le disse con vergogna “vengono i medici e
se le portano, ci stanno facendo danno”. Poche settimane dopo
Giulia raggiunge Ilaria nella piccola cittadina di Huancabamba, e
comprende tutto. Il Governo aveva organizzato dei veri e propri
festival. Cosi li chiamavano, portavano giochi, cibo, la banda e il
grande striscione con scritto “Festival della legatura delle tube”.
“Poi un domani si possono
slegare” dicevano i medici alle donne. Ma la scelta era
obbligatoria per tutte. Nelle comunità più reticenti arrivava
l’esercito, a bordo dei pesanti camion della fanteria. Montavano
una tenda e rastrellavano le donne. Giovanissime, minorenni, madri, o
appena sposate. Non faceva differenza. Non c’erano sconti per
nessuno.
Grazie a un coraggioso passaparola
clandestino, Giulia fu portata in ogni villaggio, città, comunità.
Presto iniziarono a testimoniare anche medici e infermieri, uomini
che non volevano essere complici di quel delitto. Giulia registrava,
fotografava, intervistava. Piangeva, perché il 90% delle donne che
incontrava aveva subito quell’atroce e disumana violenza.
Più Giulia indagava, più la morsa
intorno alla sua vita si stringeva. Minacce, furti, violenze a lei e
alle donne sue compagne. La casa distrutta. I telefoni sotto
controllo. Mai dimenticherà il macabro sorriso dei militari, che
stazionando davanti a casa sua giorno e notte, la seguivano con lo
sguardo, quelle rare volte che trovava il tempo di uscire col piccolo
figlio Sebastian per mano.
Grazie alla stampa internazionale,
alle sue denunce alle Nazioni Unite, alla sua lucida strategia,
Amnesty International lanciò un’azione internazionale urgente per
proteggerla.
“Fu per questa ragione che non mi
fecero fuori” dice oggi Giulia con gratitudine. “Fu grazie
all’attenzione che voi stranieri mi avevate dato”. L’8 marzo di
quello stesso anno 2000 Amnesty International la invita a New York
per ricevere il premio Ginetta Sagan, per lo straordinario lavoro
compiuto nel rischio della propria vita.
Giulia approfittò di
quell’occasione e portò con se anche i figli, per poi farli
rifugiare in Spagna. Giulia e Chema invece, tornarono nella loro
amata Lima, sconvolta da violente repressioni in quei giorni di
elezioni. In quel clima insostenibile, le minacce per la loro vita
gli sembrarono finali, e dovettero accettare anche loro la fuga.
“Vengo da voi, ci riuniamo. E vi prometto che staremo insieme per
sempre” disse Giulia ai figli, chiamandoli da una cabina telefonica
dell’aeroporto.
Oggi, dodici anni dopo quel
massacro, è diventata realtà ciò che Giulia aveva intuito e che
allora non poteva essere detto di fronte all’urgenza di salvare
vite umane. Oggi, con intere città senza bambini e senza più
scuole, è chiara la volontà di voler sterminare un popolo. E se
riportiamo su una mappa anche solo i 325.000 casi raccolti
analiticamente nelle inchieste di Giulia, scopriamo che disegnano
perfettamente le aree di forza del Senderismo, che coincidono con le
aree ricche di materie prime, e con le rotte del narcotraffico. La
“pianificazione familiare” del Governo Fujimori, altro non era
che un piano strategico militare per favorire interessi personali,
governativi e di guerra.
Ora Giulia è lontana dalla sua
terra, lontana dal poter indicare la giusta via a chi sta riaprendo
il caso, ma guarda a questa opportunità con la luce dei giusti nei
suoi occhi. Si confronta tutti i giorni con le sue compañeras
tra Lima e le Ande, gli dice che si deve e che si può, perché
“quando tutta l’umanità si fa carico dell’accaduto, della
dignità umana, anche la morte si arrende. O per lo meno, si
emoziona.” In fondo questa è l’unica cosa che Giulia sa fare.