Europa, che passione!
Europa, che passione! Storia di un amore tormentato. Questo il titolo di uno spettacolo musicale sul processo di integrazione europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Proposto dall’Associazione “Gli spaesati”, fondata da Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo, lo spettacolo prevede canzoni e videoproiezioni in cui vengono sintetizzati i momenti-chiave nello sviluppo di istituzioni europee sovranazionali: la guerra, la dichiarazione Shuman, il Progetto di Comunità politica, i Trattati di Roma e il mercato unico, le tensioni degli anni’70, Maastricht, il tentativo costituente agli inizi del 2000, le sfide odierne, per citare solo alcuni momenti importanti. Un pezzo di Storia che ci riguarda molto da vicino.
Abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Pigozzo – che ha scritto il testo insieme a Daniela Martinelli – per approfondire i temi dello spettacolo che si terrà venerdì 24 gennaio, alle ore 20.45 al Teatro Dal Verme, Via San Giovanni sul Muro, 2 a Milano. Ingresso libero.
Perché avete sentito la necessità di scrivere questo racconto in musica dedicato all’Europa? E perché la scelta di comunicare attraverso immagini e canzoni?
Il problema cui “Europa: che Passione!” vuole rispondere è: come rendere grandi numeri di cittadini europei consapevoli e partecipi delle decisive vicende che riguardano la creazione di istituzioni europee? Per i più giovani, si tratta di far scoprire da dove viene una storia che pesa enormemente sul loro futuro. Per i più adulti, di vedere con occhi del tutto nuovi la loro storia, perché quel che ci siamo raccontati finora ci impedisce di capire quel che ci sta accadendo e cosa possiamo fare per smettere di lamentarci e tornare a progettare con speranza concreta il futuro. La musica e il linguaggio artistico in generale ci sono parsi la risposta più naturale alle nostre esigenze: una musica popolare e immagini simboliche, che parlano in modo diretto alle emozioni del pubblico. Il problema con l’Europa non è soltanto far conoscere fatti e dati, ma ri-sintonizzare il maggior numero possibile di cittadini con il processo storico di cui fanno parte.
Quali sono state le tappe fondamentali che, dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno caratterizzato il progetto di un’Europa unita?
Noi ne abbiamo scelte dodici, non per ragioni simboliche ma pensando effettivamente ai passaggi più importanti di questa storia. Ovviamente ogni selezione di questo tipo comporta delle semplificazioni, ma sulle tappe fondamentali nessuno potrebbe avere dei dubbi. Ne vogliamo sottolineare una: 9 maggio 1950, la Dichiarazione Schuman, ovvero il gesto con cui la Francia tese la mano alla Germania Occidentale per arrivare alla gestione sovranazionale del Carbone e dell’Acciaio (CECA) – le basi dell’industria pesante (e bellica) dell’epoca, le ragioni di fondo per le contese territoriali che avevano condotto alle guerre mondiali. Troppo spesso si sente dire che il progetto europeo ha scopi economici, nasce dall’interesse di gruppi specifici: la Comunità europea nasce per creare condizioni strutturali di pace sul nostro continente, a beneficio di tutti i suoi cittadini. La creazione del mercato comune venne dopo, e per motivi diversi da quelli che ci si potrebbe immaginare: fu la risposta al fallimento del progetto che seguì la nascita della CECA, e che ci avrebbe dato l’unità politica dell’Europa già sessant’anni fa… Si chiamava CED (Comunità Europea di Difesa), una proposta ancora una volta francese che col decisivo apporto dell’Italia si trasformò nell’idea di una Comunità Politica Europea – fallì per un soffio, nel 1954. Se dovessimo indicare altre tappe essenziali salteremmo al 1989-1992 (caduta del Muro, nascita della UE con impegno a fare l’Euro) e ai giorni nostri – proprio oggi stiamo vivendo una nuova occasione storica di completare l’unità politica del continente.
Cosa vuol dire essere “europei” oggi?
Per noi, significa agire in modo consapevole e responsabile, in tutti i contesti possibili, affinché l’Europa (l’Eurozona innanzitutto, ma senza confini prestabiliti o chiusi) si doti di un governo democratico, con poteri limitati ma ben chiari, che sia competente assieme agli altri livelli di governo territoriale in materia fiscale, di bilancio e di politica economica e che sia competente in modo esclusivo in materiale di politica estera, di sicurezza e di difesa. Sembra una cosa tecnica, ma non lo è affatto: significa che essere “europei” oggi vuol dire non farsi abbindolare dal falso dibattito “Europa sì, Europa no” o “Euro sì, Euro no” – quel che c’è in gioco è “quale Europa” vogliamo avere. Quella che per non abbandonare il feticcio (ormai vuoto) delle sovranità nazionali, lascia che in ultima istanza le decisioni fondamentali siano prese dai rappresentanti degli Stati nazionali, in modo poco trasparente e in base ai rapporti di forza? Oppure quella che ha dato alla modernità la democrazia, l’universalità dei diritti, la divisione dei poteri e le istituzioni liberali, lo stato sociale? Perché la crisi di oggi ci costringe appunto a scegliere tra i vecchi feticci e la piena applicazione, alle istituzioni europee, della nostra stessa cultura politica e giuridica – sono in fondo cento anni esatti che ci rifiutiamo di effettuare questa scelta, ma rimandarla ancora ai tempi della globalizzazione significa rinunciare del tutto alla nostra autonomia e quindi anche a giocare un ruolo responsabile nella storia del pianeta.
Qual è l’origine della crisi che stiamo vivendo e quale la sua possibile soluzione?
La crisi che stiamo vivendo va compresa a due livelli fondamentali: globale ed europeo.
A livello globale, si tratta né più né meno della crisi dell’ordine che gli Stati Uniti d’America hanno saputo mantenere – nel bene e nel male – fin dalla Seconda Guerra Mondiale: un periodo in cui l’interdipendenza (produttiva, finanziaria, sociale, culturale) tra i popoli, le società, gli Stati del pianeta è andata crescendo in modo esponenziale. Oggi, sia sul piano della sicurezza che sul piano economico e finanziario, è finita la possibilità stessa per un singolo Stato, sia pure di dimensioni continentali, di garantire da solo (con i privilegi e gli oneri che gliene derivano) le condizioni necessarie all’interdipendenza globale. La crisi del 2007- 8, di cui noi europei soffriamo ancora oggi le conseguenze, non è altro che un aspetto di questo importante e difficile cambiamento storico – tra l’altro un aspetto non ancora risolto, che si può tradurre così: il predominio del dollaro non può durare per sempre, avremmo urgente bisogno di una moneta “terza” e più equa per favorire lo sviluppo economico globale, l’industria del denaro che produce denaro non potrà più essere la locomotiva della crescita economica degli Stati Uniti perché gli USA dovranno rinunciare alla facilità del credito e al basso costo del denaro che deriva loro non dalla mano invisibile del mercato ma dall’enorme afflusso di ricchezza reale prodotta altrove e attratta dal “potere di signoraggio” del dollaro.
A livello europeo, quel che stiamo vivendo è l’ennesima crisi che proviene da vicende mondiali in cui noi c’entriamo poco, ma che ci colgono impreparati e deboli perché siamo divisi. Ci capita così da quando tutti i nostri Stati nazionali sono diventati semplicemente troppo piccoli per essere realmente sovrani. Ma questa volta c’è una differenza. La crisi nata negli USA ha toccato il punto più sensibile e avanzato dell’intera costruzione europea: la moneta unica. L’Europa è entrata in crisi perché nel 1992, quando ha deciso di dotarsi dell’Euro, ha contestualmente deciso di non mettergli a fianco un governo democratico sovranazionale ma una serie di vincoli di bilancio reciproci. Come dire che una coppia decide finalmente di comprare casa e poi, per paura di perdere l’indipendenza, si crea minuziosi regolamenti sulle modalità di utilizzo e continua a vivere separata. Ma quel che serve alla coppia non sono regole sull’utilizzo della casa, è un patto chiaro per andarci a vivere assieme – persino la loro indipendenza ci guadagnerebbe… Fuor di metafora, pur di salvare l’apparenza dei feticci nazionali, gli Stati europei hanno imbrigliato le loro democrazie e si sono costretti a diffidare sempre più gli uni degli altri – se si fossero dotati di una Costituzione federale sarebbero stati di fatto più liberi e gli europei non solo sarebbero stati al riparo dalle tempeste ma avrebbero contribuito in modo molto più efficace al superamento degli stessi squilibri globali.
L’Euro da solo ha funzionato a meraviglia finché il contesto mondiale glielo ha permesso, ma ora non basterà a tirarci fuori dai guai. Per questo la crisi è diversa dal solito: se non diamo la risposta giusta, stavolta rischiamo di perdere tutto. In un contesto mondiale pieno di rischi e incertezze, in cui è in corso una redistribuzione di potere che privilegia una serie di attori di taglia continentale, l’Europa ha bisogno di piani di sviluppo di taglia direttamente continentale – ha bisogno di un governo democratico, che la rimetta in grado di discutere creativamente e collettivamente il futuro a lungo termine. Ce lo impone una stagnazione economica che è in realtà un problema strutturale vecchio di qualche decennio, camuffato dal successo temporaneo dell’Euro. Ce lo impone la necessità di corposi investimenti sovranazionali che puntino sull’innovazione, sulla formazione e sulla sostenibilità ambientale e sociale – non solo perché è idealmente giusto, ma perché è l’unica strada concreta per la nostra competitività. Ce lo impongono l’insicurezza delle zone del mondo ai nostri confini, l’insostenibilità del vecchio modello di sviluppo basato sui beni materiali e sullo squilibrio e lo sfruttamento di interi continenti (con conseguenti pressioni migratorie per sfuggirli), la salvaguardia di un modello ad elevato grado di giustizia sociale e l’importanza cruciale per il mondo del superamento pacifico di vecchie sovranità statuali bellicose.
Quanto è importante la memoria storica?
La memoria storica è fondamentale, purché non si riduca a un semplice ammonimento moralistico ma diventi un profondo stimolo morale. Questo riguarda tanto la storia collettiva quanto quella individuale. Il rischio per tutti noi è sempre di non accorgerci delle nuove forme e delle varianti che ci faranno cadere nei vecchi errori. Non basta esortarci a comportarci “bene” la prossima volta: finché non mettiamo in questione perché ha potuto diventare possibile che ci comportassimo “male”, tenderemo a non riconoscere “la prossima volta”. La memoria storica non ci fornisce modelli assoluti di comportamento, ma strumenti di comparazione per dare significato al presente e permetterci di pensare il futuro.