Sakineh: un simbolo contro la lapidazione e contro ogni violenza
Mohammadi Ashtiani, Iran. Nel 2006 la donna era stata condannata alla
lapidazione per adulterio e per il suo presunto coinvolgimento
nell’uccisione del marito. “Presunto” perchè, un anno dopo
l’accaduto – dal braccio della morte del carcere di Tabriz in cui era
detenuta – la donna aveva rilasciato una confessione che, secondo i
familiari e gli attivisti, le era stata estorta con la forza.
produsse un effetto dirompente, soprattutto nel mondo occidentale:
Stati Uniti, Unione europea e Vaticano, infatti, misero in atto una
fortissima campagna di sensibilizzazione contro la lapidazione (e la
pena di morte). Tale mobilitazione indusse la autorità di Teheran,
in un primo momento, a sospendere la sentenza. Lo scorso 19 marzo è
arrivata la notizia della liberazione.
Ashtiani è stata amnistiata e rimessa in libertà”: queste le
parole dell’Avvocato Bruno Malattia che da anni segue il caso della
donna e che lo ha patrocinato davanti al Parlamento europeo insieme
al Comitato internazionale contro la pena di morte e la lapidazione.
La notizia è stata poi confermata anche dal Segretario Generale
del consiglio Superiore iraniano per i diritti umani, Mahamd Javad
Larijani, ed è stata diffusa dalla stampa governativa iraniana.
L’Avvocato Malattia ha voluto, però, precisare che: “Anche se le
autorità e la stampa iraniane hanno cercato di attribuire la
decisione all’equità e alla magnanimità del sistema giudiziario di
quel Paese, il felice epilogo della vicenda che ha coinvolto Sakineh
è dovuto alla campagna internazionale contro l’ingiusta condanna
alla lapidazione pronunciata dal Tribunale islamico”.
di etnia azera come l’ayatollah Khamenei, di umili origini e quasi
analfabeta, è diventata simbolo di tutte le donne vittime della
violenza e di un sistema che sancisce la pena di morte. La sua
liberazione è considerata un atto di clemenza, quando la “clemenza”
, secondo la religione islamica, è una delle più lodate prerogative
di Dio: in questo caso anche degli Uomini.
approfondire molti temi riguardanti la cultura iraniana, soprattutto in relazione alle donne, vi
riproponiamo l’intervista che abbiamo fatto alla Prof.ssa Farian
Sabahi in occasione del suo libro intitolato “Noi donne di Teheran”
città
di Teheran, del suo popolo e dell’intero Paese. Una città in cui le
donne, oggi come ieri, sono ricchezza umana e c
libro è dedicato a suo figlio, Atesh. Qual è il significato di
questo nome e perchè ha voluto scrivere per lui proprio questo
saggio?
Atesh vuol dire “fuoco”, è un nome che
appartiene alla tradizione zoroastriana e quindi alle origini
dell’Iran, prima dell’invasione arabo-musulmana. Non ho scritto “Noi
donne di Teheran” per lui, ma ho pensato di dedicarglielo per
dargli uno strumento per abbattere, fin da ragazzino, gli stereotipi
sul nostro paese d’origine.
Attraverso i racconti, i proverbi
e le vicende di alcune persone – intellettuali e non – fa
compiere, al lettore, un viaggio nella Storia e, in particolare,
nella città di Teheran. Cosa rappresenta, per lei, la sua città
?
Qual è la mia città? Non so, ho vissuto in tanti posti
diversi. Teheran è la città in cui è nato e cresciuto mio padre,
poi emigrato a Torino. E non era in realtà nemmeno la città di mia
nonna Mariam, di cui parlo verso la fine del testo: lei era nata a
Baku, nell’odierna Repubblica dell’Azerbaigian. Poi, alla fine degli
anni Venti del Novecento, è stata obbligata a varcare la frontiera,
con la famiglia, cercando scampo in Iran. Il Medio Oriente e il
Caucaso sono da sempre mondi complessi, e certe latitudini emigrare
è spesso stata una scelta obbligata: per motivi legati alle
persecuzioni politiche, per studiare, per il desiderio di conoscere
altri luoghi ed emanciparsi dall’amore delle famiglie.
Ed è’
vero che Teheran si può accostare all’archetipo femminino?
“Donna
è Teheran”, dico in questo testo che nasce per il teatro e ha un
diverso registro di scrittura rispetto ai miei saggi accademici e ai
reportage giornalistici. La città, declinata al femminile, diventa
pretesto per raccontare la storia di un Paese, le sue similitudini
rispetto al Sud Italia e le tante, tantissime contraddizioni. Per
esempio religiose: a Teheran cristiani, ebrei e zoroastriani hanno i
loro luoghi di culto, mentre i sunniti (musulmani pure loro, come
gli sciiti) non hanno moschee tutte per loro. Ma non solo: niente
omosessuali a Teheran, aveva dichiarato il presidente Ahmadinejad,
ma a Teheran sono consentite (e incoraggiate) le operazioni
chirurgiche per cambiare sesso. Questioni complesse, cui cerco di
dare risposta.
Quali sono gli stereotipi confermati, ancora
oggi, in Occidente sul popolo iraniano?
Principalmente quelli
sulle donne, percepite sempre e comunque come coperte dal chador e
quindi oppresse. Nel testo racconto che le iraniane hanno ricevuto
il diritto di voto nel 1963, per gentile concessione dell’ultimo
scià di Persia. 1963, ovvero cinquant’anni fa e quindi prima delle
svizzere. Ma il diritto di voto non basta a fare una democrazia. E
ancora, stereotipi sull’istruzione: non tutti sanno che a Teheran
due matricole su tre sono donne. Che scelgono sempre e comunque
(tranne un’esigua minoranza) materie scientifiche. Perché con una
laurea in Lettere finisci tutt’al più a fare l’insegnante.
Perchè,
nel suo libro, parla di “schizofrenia culturale” degli
iraniani?
Prendo a prestito questa espressione dal filosofo
iraniano Dariush Shayegan. Schizofrenia culturale perché Teheran
non è né Oriente né Occidente. Teheran è una città con due
anime. Viviamo sospesi, appunto tra Oriente e Occidente, tra
modernità e tradizione. Siamo cittadini di una Repubblica…
islamica, e la nostra dovrebbe essere una democrazia… religiosa,
ma in realtà è una oligarchia di ayatollah e pasdaran. Mescoliamo
Oriente e Occidente. Per esempio quando mangiamo la pizza: con il
gormeh sabzi (un nostro piatto tipico). E al zereshk polo, un altro
piatto tipico, qualcuno aggiunge il ketchup.
E, invece, cosa
intende quando parla di “mondo iranico”?
I confini
dell’Iran attuale sono ridimensionati rispetto a quelli dell’antico
impero persiano. Mondo iranico è lo spazio culturale che va
dall’est dell’Iraq all’India del Nord passando per l’Asia centrale.
Un mondo ancora intriso di cultura persiana. In cui la poesia è una
seconda lingua madre. Anche quando dobbiamo combattere gli
integralismi. Perché spesso tiriamo in ballo un poeta antico,
contemporaneo di Dante: il nostro Hafez.
Nella seconda parte
del saggio, elenca nomi di donne che – attraverso il loro operato
– si sono affermate nel mondo dell’ Arte, della cultura, della
politica e molte di loro hanno lottato per affermare diritti umani e
civili. Nel 1907, in Iran, viene fondata la prima scuola femminile:
sono gli stessi anni che vedono protagoniste, in Europa, le
suffragette.
C’è
così tanta differenza tra le donne iraniane e quelle occidentali,
italiane in particolare?
Non più di tanto. In “Noi donne
di Teheran” l’elenco di donne in gamba è lungo, anche se
ovviamente non esaustivo. In un primo momento pensavo di
accorciarlo. E nella lettura teatrale salto a piè pari quel lungo
elenco di nomi. Ma resta la frase finale di quella parte: quando
pensare a noi riflettere sul nostro coraggio, sulla forza di noi
donne di Teheran. Perché, come recita un proverbio persiano, se
cerchi la luna guarda il cielo, non lo stagno.