Federica Angeli: il coraggio di una moglie, madre e giornalista
Non è da tutti prendere posizione
contro la mafia, ma c’è chi decide di farlo, senza scendere a
compromessi con nessuno, nemmeno con se stesso. Federica Angeli è
una di queste persone: una donna, una moglie, una madre, una
professionista – giornalista di Repubblica
– che non ha avuto paura di scrivere, di denunciare, di impegnare la
propria vita nella lotta alla criminalità organizzata per dimostrare
che le mafie esistono, che sono infiltrate ovunque, ma anche per
spronare tutti a stare all’erta e a non piegarsi a una cultura del
ricatto e della sopraffazione.
Abbiamo intervistato per voi
Federica Angeli, vincitrice del premio donna X Municipio 2014 e che
ringraziamo per queste sue parole e anche perchè ha risposto alle
nostre domande anche con il cuore.
Ripercorriamo, brevemente, la sua esperienza: vive sotto scorta perchè denunciò una rissa tra clan a Ostia, in un quartiere caratterizzato da un forte abusivismo edilizio?
Non proprio. Sono stata messa sotto scorta per il combinato congiunto di un’inchiesta che ho condotto a Ostia, nel corso della quale ho ricevuto pesanti minacce di morte da parte di un appartenente alla famiglia Spada, un clan di origine nomade molto spietato, e della mia testimonianza, come cittadina, rispetto a quanto accaduto davanti a una sala scommesse la notte a cavallo tra il 15 e il 16 luglio 2013. Il quartiere non è affatto caratterizzato da un abusivismo edilizio, quello di cui parla è l’Idroscalo, che dista almeno due chilometri da dove è accaduta la rissa e dove morì Pasolini. La strada in cui è avvenuto lo scontro a colpi di coltelli e di pistola è sicuramente caratterizzata dalla presenza di pregiudicati e criminali che gravitano attorno a quella bisca, l’Italy Poker, davanti alla quale scoppiò l’inferno in una notte d’estate.
Vivere sotto scorta ed essere moglie e madre, oltre che giornalista: come conciliare tutto questo? E in nome di quali ideali ha fatto questa scelta professionale e di vita?
E’ davvero molto complicato conciliare il tutto. Diciamo che io e mio marito abbiamo scelto di far vivere ai bambini tutto questo sulla falsa riga del film “La Vita è bella”. Tutto è un gioco in cui abbiamo quattro straordinarie persone (i carabinieri del nucleo scorte) che per i bambini sono i nostri autisti. Tolta la maschera del gioco, resta una grande amarezza e preoccupazione per lo stato delle cose. Ai bimbi in strada personaggi di grosso spessore criminale hanno fatto il segno della croce, sono venuti a gridarci sotto casa, dopo la mia denuncia, “infami, gli infami muoiono”. Insomma è molto dura vivere senza libertà, trovare un sorriso rassicurante ogni giorno per i miei cuccioli, rassicurare un marito che si è trovato con una vita sconvolta per aver subìto una mia scelta e continuare ad avere la concentrazione per portare avanti il mio lavoro. Tuttavia nei miei momenti più bui, penso sempre al forte credo che è in me, al senso innato di giustizia che mi ha sempre caratterizzato. Mi piace pensare di poter cambiare un mondo in cui in molti cominciano a sentirsi stretti, mi piace contribuire, in virtù della mia penna e delle mie inchieste-denuncia, a raddrizzare questo mondo che sembra non avere più un verso e in cui molti ideali sembrano perduti, dimenticati. Ecco io non mi rassegno, non mi adeguo a vivere secondo regole che non mi appartengono, a cui molti si sono, loro malgrado, piegati. Per cui lotto, come posso. Ed è tutto questo che mi ha sempre guidato nel mio percorso professionale. Ma le garantisco, mai avrei immaginato di finire sotto scorta dal luglio scorso.
Ora i tre che l’hanno minacciata sono liberi: lo Stato è debole, impotente o altro?
La sensazione che sicuramente questi criminali hanno, è di debolezza dello Stato. Tanto che, il giorno in cui sono stati messi ai domiciliari (il 16 ottobre) sono venuti sotto la mia abitazione a fare un brindisi. Io praticamente in prigione, senza la mia libertà e loro liberi di scorrazzare. Il mio punto di vista è decisamente più critico nei confronti della magistratura in questo caso. Perché se un pubblico ministero che prende in mano un fascicolo in cui i carabinieri scrivono che due soggetti (affiliati peraltro al potente clan dei Triassi a processo per 416 bis, associazione a delinquere di stampo mafioso) vengono accoltellati ai polmoni e alla giugulare con prognosi di 60 e 30 giorni e un periodo in terapia intensiva in ospedale, che questi soggetti reagiscono alle coltellate ferendo con un colpo di pistola al polpaccio Ottavio Spada, già indagato per un duplice omicidio di due grossissimi pregiudicati nel 2011, ecco, mi chiedo: perché classificare il reato in rissa aggravata, piuttosto che tentato omicidio? Qual è stata la valutazione del pubblico ministero Erminio Amelio nel valutare lo spessore criminale dei soggetti coinvolti? Visto poi che ci sono testimoni – io nella fattispecie – e sono state ritrovate le armi del delitto: cos’è che ha fatto scegliere al pubblico ministero un reato che prevede sei mesi di detenzione? Incompetenza? Sottovalutazione di un fenomeno criminale? Certo è che, di questo passo, lo Stato rischia di rafforzare i clan, che gongolano in un senso di impunità garantito dalla giustizia stessa.
Nel suo percorso professionale ha visto in faccia la mafia: ci può raccontare – e commentare – l’episodio che più l’ha colpita? Ad esempio, il suo rapporto con la famiglia Fasciani…
Ce ne sono tantissimi di aneddoti che potrei raccontarle. Con la famiglia Fasciani ho sempre avuto un rapporto di estrema onestà. Entrambi sapevano chi eravamo, non ci siamo mai nascosti dietro finzioni. Le loro regole del gioco sono molto ferree: guai a tradirsi, guai a fare “l’infame”. E per infame intendono anche il giornalista, ad esempio, che si nasconde dietro una sigla o uno pseudonimo quando scrive di loro. Uno che li attacca alle spalle. Di me avevano stima, perché, mi dicevano, avevo avuto il coraggio di guardarli negli occhi, di bussare alla loro porta e di scrivere sempre le cose correttamente, senza sparare a zero, senza aggiungere particolari per fare folklore. Insomma, malgrado sapessero che stavo conducendo un’inchiesta su Ostia che avrebbe coinvolto anche la loro famiglia, non hanno mai cercato di stopparmi. Ma ricordo una volta in cui la moglie di don Carmine mi chiamò e mi fece avvicinare a lei: fissava un gatto e mi disse che lei adorava i gatti. “E sa perché? Per due motivi: il primo è perché non parlano, il secondo è perché non tradiscono mai”. Un messaggio importante, che mi colpì.
Cosa si può fare per combattere indifferenza e omertà?
Io
le posso dire quello che faccio io. Denuncio con le mie inchieste, vado nelle scuole, nei licei della capitale a raccontare la mia esperienza, cerco di lasciare un semino in ogni ragazzo che guardo negli occhi, tento di farli ragionare e di far capire loro quanto, nella vita, sia importante prendere posizione, fare una scelta. Non importa quale sia, paradossalmente possono anche scegliere di avvicinarsi alla criminalità. Ma restare nel silenzio, avere il timore di fare dei nomi e dei cognomi, girarsi dall’altra parte: ebbene questo è anche peggio di stare dalla parte dei cattivi, per come la vedo io. Mi ha colpito uno degli incontri che ho fatto al liceo Enriques di Ostia. I ragazzi avevano preparato, prima dell’appuntamento con me, un video, in cui avevano girato per Ostia con una telecamera e avevano intervistato le persone chiedendo loro se erano consapevoli che in quel territorio esistesse la mafia: tutti gli intervistati hanno risposto sì, senza paura, hanno fatto persino i nomi. Esattamente un anno prima io, per il mio giornale, avevo fatto la stessa cosa e nessuno aveva parlato. Ecco le coscienze si sono svegliate, tutto sta avendo un senso. Quei ragazzi, inconsapevolmente, col loro prezioso lavoro mi hanno dato molta carica e così la mia libertà sacrificata ha riacquistato un significato. Bisogna capire che l’omertà e l’indifferenza sono il pane di cui si alimenta la malavita, ed è per questo che la voce della stampa dà così fastidio. E bisogna uscire dal guscio del “che schifo il mondo ma non posso farci nulla, quindi taccio”. Fare qualcosa si può. Perché, sono fermamente convinta, siamo ancora in tempo per vivere una vita migliore. Forse anche io un giorno tornerò libera e mi unirò alla festa di chi ha combattuto per i miei stessi ideali, non scoraggiandosi mai. E sarà davvero un bel giorno. Per tutti. |