Giraffada
Pubblichiamo
questo saggio di Monica Macchi, ringraziandola molto.
su www.formacinema.it)
Regia:
Rani Massalha
Xavier Nemo, Rani Massalha
Manuel Teran
Carlotta Cristiani
Yoël Herzberg
Benjamin Grospiron
Heimatfilm, Lumière & Co.
in associazione con Al-RANI PRODUCTION –
italiana VISIONARIA
di:
FONDS SUD CINEMA; MINISTERE DE LA CULTURE ET DE
MINISTERE DES AFFAIRES ETRANGERES ET
il sostegno di:
EURIMAGES; FILM UND MEDENSIFTUNG NRW FFA
riconosciuto di Interesse Culturale con il sostegno del Ministero dei
Beni e delle Attività culturali e del Turismo Direzione Generale per
il Cinema
per questo film nasce da un trafiletto su un giornale durante la
Seconda Intifada “ Il
conflitto israelo-palestinese ha fatto una vittima in più: una
giraffa è stata uccisa nello zoo di Qalqylia”,
ispirando il libro “The zoo on the road to Naplouse” di Amelia
Thomas, il documentario “The zoo” di Hayden Campbell e
l’installazione di Peter Friedle a una mostra d’arte
contemporanea in Germania. Questa notizia ha colpito anche il regista
che più volte ha cercato di far arrivare un’altra giraffa allo
zoo, ma senza mai riuscirci; ha continuato però a pensarci e l’idea
è diventata un film quando ha incontrato Xavier Nemo che ha subito
sostenuto il progetto perché da “ebreo-armeno
non posso accettare cosa sta succedendo in Palestina”.
Questa
favola a misura di bambino vista dagli occhi di un bambino racconta
di Yassin, veterinario dello zoo di Qalqylia e di suo figlio Zyad che
ha la passione delle giraffe, di cui si prende cura preferendole alla
compagnia degli altri bambini. Durante un raid aereo una delle
giraffe, Brownie si spaventa, cade, batte la testa e muore,
nonostante Yassin avesse promesso al figlio di fare un miracolo. Lo
zoo non ha soldi per comprare un’altra giraffa, per non parlare di
tutti gli impedimenti burocratici e Yassin si trova a fronteggiare la
rabbia del figlio che lancia pietre e smette di mangiare.
Una delle particolarità del film sta nell’innestare sentimenti
universali il cui fulcro ruota attorno al rapporto padre-figlio,
nello specifico palestinese: l’amore
verso il figlio assume la forma di amore tout
court,
amore per la libertà, la vita e la dignità mentre Zyad rappresenta
la tenacia ed il desiderio che hanno la meglio sul caso e sul caos e
lo zoo diventa così una metafora, un
universo sferico di gabbie concentriche.
Gabbie
rese anche dall’uso in questa parte dei primi piani che fanno
penetrare nell’intimità di cosa succede sullo schermo e attestano
la centralità dei personaggi con “volti
intensivi”
per
citare Deleuze
“che
sentono, tendono verso un limite e oltrepassano una soglia”.
Yassin
pensa così di rapire una giraffa maschio dal parco Ramat Gan vicino
a Tel Aviv per portarla a Qalqylia, coinvolgendo anche un collega
israeliano e una giornalista francese: e qui il film prende una
dimensione
on the
road al tempo stesso estremamente visuale e reale ma tuttavia
immaginifica nel senso che permane la struttura lineare ma in
continuo bilico tra realtà e immaginazione fino alle scene
finali surreali in campo lungo con la giraffa che attraversa il muro
e hanno una duplice funzione sia estetica che semantica mostrando in
tutta la sua estensione e potenza, la gabbia che imprigiona i
palestinesi, quel muro di separazione alto nove metri, ben più della
giraffa, l’animale più alto di tutti.
Molto
interessante l’utilizzo del rumore: razzi, spari, urla tutti
effetti sonori essenziali alla definizione del contesto in una terra
occupata e ai check point, ma c’è in più un elemento
dialetticamente attivo cioè la scelta di non tradurre né
sottotitolare l’ebraico parlato dai coloni e dai soldati che
contribuisce alla tensione drammatica ed esprime l’incomprensione e
la lontananza ben esemplificati nella scena dell’arresto finale.
In
Palestina non esiste una industria cinematografica né politiche
culturali adeguate o infrastrutture: (ad esempio per Giraffada non
sono riusciti ad ottenere i permessi per girare a Qalqylia e hanno
così scelto Nablus); nonostante ciò la scena culturale è
estremamente vivace si produce molto: basta pensare alle recenti
candidature all’Oscar di “Five
broken cameras”
di Emad
Burnat e Davidi Guy,
e di “Omar”
di Hany Abu-Hassad, ma ci sono moltissimi altri film che hanno avuto
riconoscimenti internazionali ad esempio “When
I saw you”
di Annemarie Jecir,
vincitore del “Best Asian Film” al Festival di Berlino, del “Best
Arab Film” al Festival di Abu Dhabi, del “Premio Speciale della
Giuria” al Festival arabo di Oran in Algeria e del “Premio della
Giuria” al Festival Internazionale del Cairo, e anche “A
world not ours”
di
Mahdi
Fleifel,
che ha vinto ben 3 premi al Festival di Abu
Dhabi, il
Premio per la Pace
al
Festival di
Berlino, il Premio del Pubblico al
Millenium
International
Documentary Film
Festival
di Bruxelles,
il Dokfest
a Monaco di
Baviera e il Miglior Film
Internazionale
al Festival Internazionale di Ismailia in Egitto. Sono
tutti documentari
e fiction che riprendono il dolore e le inquietudini del popolo
palestinese in modo da cristallizzarli e renderli veicolabili sulla
scia della lezione di Tawfiq Salih regista di “Al-makhdu’un”,
opera basilare della cinematografia palestinese (tratto dal romanzo
di Ghassan Khanafani “Rijal fi-al-shams”) secondo cui “non
si può cambiare la mentalità e la psicologa di un popolo giocando
coi suoi sentimenti al punto da provocarne le lacrime..l’arte
impegnata deve provocare nello spettatore la collera di fronte a ciò
che vede per sviluppare una coscienza critica”
.
Nella
filmografia palestinese sono così pochissimi i film per bambini
dove la
realtà viene messa momentaneamente tra parentesi e dove le uniche
risorse restano l’immaginazione e la conoscenza dell’Altro:
emblematiche sono le figure della giornalista francese (un’estranea
idealista che ben presto resta affascinata e coinvolta al punto da
trasportare clandestinamente Yassin e Zyad in Israele) e soprattutto
il veterinario israeliano che arriva addirittura a prendersi gioco
del soldato di guardia allo zoo pur di aiutare Yassin: in particolare
il regista ha scelto per questo ruolo Roschdy
Zem, un attore di origini marocchine (cha vinto il premio come
Miglior Attore a Cannes nel 2006 per “Days of Glory” e la Palma
d’oro nel 2010 per il film “Outside the Law”) perché “spesso
nei film gli israeliani sono biondi e con la pelle chiara, ma la
verità è a volte io stesso non riesco a distinguere tra ebrei e
arabi, così ho voluto rompere il cliché”.
Ma
tutto il cast è di altissimo livello a partire da Saleh Bakri attore
de “La
banda”
di Eran Kolirin (per cui ha vinto l’Oscar israeliano) e “Salt
of this Sea”
di Annemarie Jecir, “Il
tempo che ci
rimane”
di Elias Suleiman, “La
sorgente dell’amore”
di Radu Mihaileanu e il recentissimo “Salvo”
di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza; Ahmad Bayatra che ha recitato
nel corto
“Elvis
of
Nazareth”
vincitore dell’
Unifrance
Premio
Speciale a
Cannes e Mohammed Bakri attore e regista icona del cinema e del
teatro palestinese che ha lavorato con registi di fama mondiale
(“Hanna
K” di
Costa Gavras, “Mas
des alouettes”
dei
fratelli Taviani, “Private”
di Saverio Costanzo) che appare in un cameo come venditore di
noccioline che parla per metafore.
https://www.youtube.com/watch?v=OuH947wtPxQ