Rapita nella guerra in Siria: Susan Dabbous
Lo scorso 3 giugno in
Siria si sono tenute le elezioni, definitie dalla comunità
internazionale e dagli Stati Uniti, in particolare, come “la
parodia della democrazia”: è stato, infatti, confermato il potere
a Bashar Al Assad che con un gioco di forza ha voluto dimostrare,
ancora una volta, la sua supremazia.
sull’argomento in maniera approfondita, ma per ora vi riproponiamo
una breve intervista che abbiamo fatto alla giornalista Susan Dabbous
poco prima delle consultazioni elettorali.
Come vuoi morire?
Rapita nella Siria in guerra
aprile 2013 Susan Dabbous, giornalista di origini siriane, è stata
rapita insieme ad altri tre reporter italiani. Sono stati
sequestrati a Ghassanieh, un villaggio cristiano, da parte di un
gruppo legato ad al-Qaeda mentre stavano facendo le riprese per
preparare un documentario per la RAI.
giornalisti sono stati dapprima portati in casa-prigione,
successivamente Susan è stata trasferita, da sola, in un
appartamento con Miriam, moglie di uno jihadista, con cui ha dovuto
pregare e ascoltare i discorsi di Bin Laden. Ma la domanda che le
veniva posta, in maniera ricorrente, era: “ Qual è la tua morte
preferita?”.
il titolo del libro: Come
vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra, il
diario della prigionia di Susan Dabbous, edito da Castelvecchi.
intervistato per voi la giornalista che ringraziamo molto.
Innanzitutto,
ci può raccontare brevemente qual è il ricordo più duro legato
alla sua prigionia e quali erano i suoi pensieri ricorrenti durante
quell’esperienza? Come si è rapportata con i rapitori?
Ho
optato per un atteggiamento passivo di sottomissione totale, ma ci
tengo molto a precisare che l’islamizzazione è stata una cosa
volontaria, sono io che ho chiesto di imparare la preghiera, volevo
integrarmi nel loro contesto sociale, condividere i miei giorni con
altre donne nel caso in cui ce ne fossero state, uscire da un
contesto di prigionia violento e angosciante. Credevo che mi
avrebbero tenuto per mesi se non per anni, come accaduto ad altri
ostaggi. L’integrazione per me equivaleva alla sopravvivenza.
Recentemente,
durante una presentazione del suo libro, lei ha citato la frase di
Padre Paolo Dall’Oglio: “Non mancare la propria morte”: ci può
spiegare il significato di quella frase e del concetto che esprime?
Tra le
frasi che mi hanno colpito di più del libro “Collera e Luce” di
Padre Paolo Dall’Oglio c’è questa: “Per me inconsciamente la
preoccupazione di non fallire la propria morte è rimasta molto viva
e interviene nelle mie scelte. La paura di non morire là dove si
dovrebbe, quando si dovrebbe e per le giuste ragioni”. Ho trovato
in questa frase molto forte il concetto di sacrificio, cristiano,
umano, per il prossimo: là dove la fede non è pregare per la
propria salvezza bensì per il miglioramento dell’umanità. Padre
Paolo crede così tanto nel dialogo da non ha paura di proporlo
ovunque e a chiunque. In Egitto, come in Siria senza dimenticare
l’Iraq. Le sue recenti scelte sono state dettate dal coraggio ma
anche da una conoscenza più che trentennale del Medio Oriente. Da
luglio scorso non si hanno più notizie di lui, chi lo detiene in
Siria sa probabilmente chi ha tra le mani. Spero con tutta me stessa
che sia trattato con rispetto.
Nel
suo libro parla del coraggio del popolo siriano. La guerra civile è
una guerra che i civili stanno pagando a un prezzo altissimo: vuole
riportare alcune voci di quelle persone? Le loro aspettative, le
loro richieste…
In
Siria si spera di tornare presto alla normalità. I bambini vogliono
tornare a scuola; i padri di famiglia vogliono lavorare, perché il
problema del lavoro è assolutamente centrale. Le donne sognano di
ritornare nelle proprie case. Sono stanche di vivere la condizione
di povertà estrema, di precarietà e di mancanza di dignità. A
nessuno piace essere profugo, ma in questo caso specifico si tratta
di un popolo con scarsa propensione all’emigrazione. I siriani,
anche i più poveri e modesti, posseggono una casa o un pezzetto di
terra.
Il 2
aprile scorso è stato cancellato, in Italia, il reato di
immigrazione: cosa possono fare l’Italia, ma anche l’Unione Europea
in termini di immigrazione? E come tutelare i diritti dei rifugiati,
dei richiedenti asilo?
L’Europa
potrebbe impegnarsi di più nell’accoglienza dei profughi che
arrivano sulle nostre coste sostenendo viaggi disumani, pagando
decine di migliaia di euro. Appena arrivati si sentono salvi, dopo
poche ore inizia un nuovo calvario, tutto europeo e burocratico,
fatto non più di loschi trafficanti e vecchi barconi ma di questure
e fogli di rinvio. Bisognerebbe rivedere il regolamento di Dublino
che obbliga il richiedente asilo a fare domanda nel primo paese
d’arrivo. Un sistema palesemente fallimentare perché nessuno
vuole rimanere in Italia, Grecia o Bulgaria, paesi dalle economie
fragili incapaci di dare non solo opportunità ma a volte anche
l’assistenza di base.
Qual
è o quale deve essere il ruolo dei mass-media italiani (e
occidentali in genere) nel raccontare ciò che succede in
Medioriente? E’ possibile fare giornalismo, in tema di politica
estera, con precisione e attenzione alla verità?
Credo
che la Siria venga raccontata e anche bene, ma è una qualità
dell’informazione accessibile solo ai tecnici, a chi sa dove
prendere cosa. Tra siti internet, fonti dirette e fughe di notizie
da parte di chi vuole colpire questo o quel gruppo in conflitto. Il
problema, certo, è come rendere fruibile questa quantità a volte
anche mastodontica di notizie. Discernere e tentare di verificare
senza mettere a repentaglio la propria vita. È una sfida
importante, conosco giornalisti italiani e stranieri che sono
entrati e usciti illesi dalla Siria negli ultimi mesi, questo non
significa però che non abbiano affrontato enormi rischi. In Italia
c’è però un problema di discontinuità, sui temi di politica
estera che vengono raccontati a singhiozzo, questo non aiuta affatto
la comprensione di fenomeni complessi che ci sono ad esempio dietro
i conflitti.