Fare spazio e non frontiere. Mare Nostrum e il confine militare-umanitario
Pubblichiamo questo articolo per
noi importante (già su euronomade.info), ringraziando anche Marta
Bellingreri per averlo segnalato.
Di Martina Tazzioli
Nove mesi fa, pochi giorni dopo i
due naufragi avvenuti vicino alle coste di Lampedusa e in cui, in
totale, sono morti 662 migranti, i ministri della difesa e
dell’interno (allora Alfano e Mauro) lanciavano Mare Nostrum, la
missione ‘militare-umanitaria’ per ‘incrementare il livello di
sicurezza della vita umana e il controllo dei flussi migratori’.
Una missione militare a tutti gli effetti, in cui la Marina Militare
é stata incaricata di mettere in scena il ‘buon spettacolo del
confine’ – salvare vite umane in mare, pattugliando in acque
internazionali e spingendosi all’occorrenza anche in quelle
libiche. Da quando é stata lanciata Mare Nostrum nell’ottobre
2013 tra giornali, articoli specialistici e video, abbiamo
assistito a un susseguirsi di testi, direttive ministeriali e storie
di persone arrivate che tratteggiano i contorni visibili del confine
‘militare-umanitario’ e del Mediterraneo come spazio di mobilità
contestata.
70.000 é il numero attuale delle
persone ufficialmente salvate da Mare Nostrum, una cifra che rende
conto non solo della frequenza degli interventi delle navi militari
ma anche dell’entità di un fenomeno di migrazioni e fughe da
paesi in guerra che ci presenta uno scenario prima di tutto
geopolitico indubbiamente differente da quello del 2011, quando alle
partenze dei tunisini si aggiungevano quelle causate da una guerra
in corso, il conflitto libico. Oggi, invece, anche se la Libia resta
uno dei principali luoghi delle partenze via mare, i luoghi da cui
si fugge sono ben piú numerosi. Per osservare fino in fondo
l’azione del confine militare-umanitario, occorre spostarsi un po’
rispetto al mare, al ‘buon spettacolo del confine’ dei
salvataggi ma anche dei naufragi che, nonostante Mare Nostrum, in
questi ultimi due mesi hanno prodotto un bollettino di morti
impensabile fino a un anno fa e che non potrà che ingigantirsi in
questi mesi estivi. Di fatti, oltre la banchina del porto, dei molti
porti siciliani in cui attraccano le navi di Mare Nostrum, si
produce un’interruzione temporale: immediamente fuori dalla mappa,
è difficile seguire la traccia di quelle stesse persone arrivate
con il convoglio militare-umanitario e della continuazione dei loro
percorsi, a meno che non si faccia parte della comunità di
attivisti, ricercatori, associazioni (govenrmentali e non) che quei
migranti insegue per varie ragioni. Mentre le persone arrivate
immaginano un possibile spazio europeo da attraversare, o
semplicemente di arrivare piú a nord, alcuni in Svizzera o in
Francia, molti di piú in Germania e in Svezia, le loro geografie
appaiono semplicemente inconcepibili e non contemplate agli occhi
dei canali selettivi dell’umanitario, che risponde frammentando
percorsi e progetti di viaggio. La cattività temporale dei migranti
parcheggiati nelle città italiane rimane fuori dalla mappa, così
come gli effetti di quel confine militare-umanitario, che blocca e
salva, prende e scarica, vanno ben oltre il mare. Alla stazione di
Milano è difficile non accorgersi che il mezzanino é affollato di
famiglie siriane in attesa di una sistemazione nelle strutture del
comune, dove si fermano solo per pochi giorni per poi tentare di
passare il confine svizzero o quello francese per arrivare in
Svezia, che ha garantito a tutte le persone di nazionalità siriana
un permesso umanitario, ma dove per arrivare bisogna attraversare
almeno quattro confini europei. Ritornando invece alla scena del
confine militare-umanitario, osservarne il funzionamento effettivo
attraverso l’operazione Mare Nostrum significa anche soffermarsi
sul regime di visibilità e cattura in gioco nella governamentalità
delle migrazioni in mare: una politica a intermittenza della
mobilità, che risponde a una visibilità irregolare e a una presa
altrettanto discontinua sulle vite dei migranti e delle migranti. Un
tipo di presa sulle vite, quello esercitato dalla politica
migratoria a intermittenza, che lungi dal fondarsi sulla
capitalizzazione della vita stessa secondo i criteri biopolitici,
alimenta un crinale molto fragile tra non vedere – ovvero lasciar
morire – e monitorare per incanalare e bloccare i movimenti ‘non
autorizzati’.
Difficile calibrare i toni della
critica di fronte ai ‘military ferries’, come li hanno definiti
alcune delle persone salvate da Mare Nostrum, che evitano l’ecatombe
mediterranea andando a prendere i migranti fino in acque libiche.
Difficile, si potrebbe dire, nella misura in cui il militare viene
investito di un compito umanitario, come la stessa missione di Mare
Nostrum é stata nominata. E tuttavia, sarebbe un errore tentare di
separare i due termini di quel confine, militare e umanitario,
spingendo affinché il secondo venga ‘purificato’ dal primo:
l’umanitario in tutte le sue svariate declinazioni è una
tecnologia di governo, una forma di presa sulle vite che nel caso
delle migrazioni ‘canalizza’ movimenti e soggetti, destinando
qualcuno ai percorsi infiniti dell’‘accoglienza’ che prevedono
attese indefinite, e gli altri ai canali accelerati dell’espulsione.
Un governo al tempo stesso delle ‘popolazioni migranti’ – che
reinsedia gruppi di persone, allocandoli in vari paesi – e dei
singoli corpi e individui – impedendo di fatto in virtú del
regolamento di Dublino III la possibilità di scegliere dove fare
domanda di asilo e piú in generale in quale spazio abitare.
Politiche, quelle migratorie così come quelle dell’umanitario,
che rendono inaccessibile o invivibile per molti e molte migranti
ogni spazio all’interno dei confini europei e sanciscono di fatto
un’impossiblità di stare, prima ancora che di restare. Ad ogni
modo, in un momento in cui le destre invocano con forza lo stop
immediato di Mare Nostrum perché ‘ci porta i clandestini in
casa’, sarebbe del tutto fuori luogo opporsi tout court alle
operazioni di salvataggio ad opera della Marina. Resta però un
punto, fondamentale, che permette di tracciare una distinzione e una
distanza molto netta tra le ambigue posizioni di chi sostiene Mare
Nostrum e chiede la presenza di Frontex nell’operazione, e quelle
realtà di movimento che con la Carta di Lampedusa chiedono
l’apertura di ‘percorsi di arrivo garantito’ per tutte le
persone in fuga da una guerra. L’ingente dispiego di forze
militari per salvare le vite dei migranti è spesso presentato come
il segno del profondo sforzo dell’Europa, in questo caso
dell’Italia, a fronte di migliaia di persone che lasciano il
proprio paese. Ma se proviamo a guardare a Mare Nostrum dal punto di
vista di chi parte, ci accorgiamo che non si può arrivare in Europa
per chiedere asilo dalla Siria, dalla Libia, dal Mali o dall’Eritrea
se non attraversando il Mediterraneo rischiando di morire e essere
forse tratti in salvo dalle navi della Marina Militare. Il buon
spettacolo del confine non deve distoglierci da quel confine ben piú
distante ma che agisce molto prima, nei consolati e nelle ambasciate
dei paesi europei. Il militare divenuto umanitario e la
militarizzazione umanitaria non sono che la versione ‘mediterranea’
e a noi piú visibile di una politica selettiva dei movimenti che
per molti diventa condizione di immobilità o di mobilità al prezzo
della propria vita. Percorsi di imbrigliamento e contenimento dei
movimenti e, insieme, della possibilità per chi arriva in Europa di
avere uno spazio in cui stare. Un’eccezionalizzazione dei
movimenti resa come inevitabile – senza mettere in discussione il
sistema dei visti che impedisce alle persone di partire e arrivare
in modo sicuro –di fronte a cui non si può che mobilitare un
meccanismo di contenimento e salvataggio ‘eccezionale’ come
quello militare. O meglio, un confine umanitario-militare perché
non solo i movimenti dei migranti vengono canalizzati (prima in mare
e poi a terra) ma si introducono anche nuove differenziazioni
spaziali e giuridiche, si tracciano nuove zone di intervento e
limiti, nonché forme di monitoraggio e controllo della mobilità.
E’ in fondo la libertà dei soggetti che si trova in questo
contesto evacuata, non contemplata fin dall’inizio – e questo è
un punto importante su cui insistere politicamente rispetto alla
forma di critica possibile rispetto al confine umanitario. Ovvero,
nel governo dei movimenti e delle condotte di migrazione la libertà
rimane la grande assente fin dall’inizio della storia, nei
meccanismi di salvataggio così come nei canali dell’umanitario:
forzati a partire dal loro paese di origine o dalla Libia, non é
previsto che i migranti salvati mettano in atto il loro progetto di
vita o che possano immaginare lo spazio in cui stare. Una mobilità
che non può essere realizzata che attraverso tappe di non-libertà.
9 milioni di euro al mese é il
costo dichiarato dalla Marina Militare a cui vanno ad aggiungersi
quelli delle altre forze militari impegnate nell’operazione. Ma
questa nota importante non deve far perdere di vista una riflessione
oculata su come impiegarla. Di fatti, “con tutti questi soldi
salvate i migranti e non salvate gli italiani”, e “in questo
modo arrivano piú migranti perchè sanno che li salvate” sono le
critiche che sempre piú cominciano a sentirsi e di cui spesso si
legge sulle testate locali e nazionali. Contrapporre la vita dei
migranti a quella degli italiani non ha certo come obiettivo la
possibilità per tutte e tutti di muoversi e partire liberamente
senza un ‘salvifico’ potere ‘militare-umanitario’. L’inizio
del semestre italiano di presidenza europea sarà probabilmente
l’occasione per il governo per rilanciare cio che Cecilia Malstrom
durante l’ultimo consiglio europeo sembra aver escluso con una
battuta – “Mare Nostrum non è Frontex Nostrum” – ovvero
pretendere che la frontiera sud diventi oggetto di gestione
condivisa tra i paesei europei. E, insieme, la disobbedienza
‘clandestina’ al regolamento di Dublino da parte dell’Italia,
che almeno siriani e eritrei fa passare senza prendere loro le
impronte, diventerà forse materia di negogazione politica.
Tuttavia, anche su questo è importante eliminare fin dall’inizio
possibili ambiguità: la soluzione alle morti in mare non sta
nell’europeizzazione del militare-umanitario e la sospensione del
regolamento di Dublino non significa meno migranti in italia ma
possibilità di scegliere lo spazio in cui stare. Dunque, oltre ai
diritti spesso violati alle frontiere nei confronti di chi cerca di
attraversarle senza il passaporto del giusto colore, il confine
Mediterraneo e la drammatica alternanza di morti e salvataggi ci
mostra un Europa che non è certo all’altezza, giuridicamente e
politicamente, dei movimenti delle persone e dei riassestamenti
geopolitici a cui stiamo assistendo. Un’ Europa, invece, da
ridisegnare attorno al “fare spazio e non frontiere”, con cui
ogni politica di accoglienza dovrebbe confrontarsi e che la presenza
nelle nostre città dei ‘salvati’ da Mare Nostrum ci impone di
cominciare a praticare.