Foley, la guerra, la comunicazione
Il
video dell’esecuzione del giornalista Usa sconvolge e deve far
riflettere: l’uso dei media da parte dei miliziani ha creato una
nuova frontiera del raccontare i conflitti (già su www.gcodemag.it)
di Alessandro Di Rienzo.
Concepito a Roma in un incontro
occasionale il 21 aprile del 1978 è nato a Napoli il penultimo
giorno dello stesso anno in quanto la madre aveva letto un noto
libro di Oriana Fallaci. Questo lo ha appreso nel novembre del 2002
mentre contestava proprio la Fallaci a Firenze in occasione
dell’Europa Social Forum. Da allora ha sviluppato una
irrimediabile attrazione verso le contraddizioni. Caratteristica
questa che lo ha portato, con penna o telecamera, a interessarsi di
Medio Oriente e vertenze sindacali.
22
agosto 2014
– La barbara uccisione di James Foley genera smarrimento, a
chiunque. È l’agosto nero dei videomakers, figura
professionalmente mai troppo riconosciuta ma particolarmente esposta
nei contesti di guerra. Troupe leggera, spesso composta da una sola
persona.
Cameraman,
intervistatore, producer, montatore, tutto in uno, per questo mobile
ed economica, soprattutto se il servizio non lo si commissiona e lo
si compra a posteriori. Questa era la vita di James Foley prima del
sequestro, il secondo, durato 635 giorni. Fino a due decenni fa i
giornalisti erano percepiti come osservatori neutrali. Oggi non più.
In questo tempo sono stati ammazzati da chiunque: dall’esercito
statunitense, come da quello israeliano e dai ribelli iracheni.
Ma a
generare disorientamento fin dentro le convinzioni di una vita è il
cortocircuito semantico generato dal video dell’uccisione. Eravamo
abituati a vedere in tuta arancione gli arabi, probabilmente
musulmani, ma sicuramente gente dalla pelle minimamente scura.
Ammanettati
ai polsi e spesso anche alle caviglie in una prigione di rete
metallica e filo spinato nella baia di Guantamano. Volti indirizzati
verso il basso tra i sorrisi appena accennati di militari
statunitensi. Questa volta no, è un occidentale a vestire la tuta
arancione, uno di noi verrebbe da dire. Per i primi il sospetto di
appartenere a una rete terroristica. Sospetto che spesso si è
rivelato infondato. Per Foley la cittadinanza statunitense.
Il video,
opportunamente censurato dai nostri siti di informazione, ma che si
può trovare nella versione diramata dall’Is su diversi siti che
incitano alla jihad, apre con il discorso di Obama che annuncia la
ripresa dei bombardamenti in Iraq contro le postazioni del
califfato. Antefatto che si chiude con l’effetto del
riavvolgimento del nastro per passare all’immagine di Foley,
inginocchiato e ammanettato in tuta arancione, con un uomo vestito
di nero e con il volto coperto che brandisce con la mano sinistra un
coltello.
A stordire
sono le parole di Foley: l’accusa al fratello, un militare Usa, di
aver decretato la sua morte nel giorno che ha preso parte agli
interventi militari in medio oriente. Saluta i genitori rimpiangendo
di non averli più rivisti ma spiegando che “la mia nave è già
salpata”.
Bestemmia
la propria cittadinanza, quella di statunitense, definendola causa
della propria morte. Un discorso senza segni apparenti di nervosismo
che possano far pensare a una contraddizione, a un tentennamento.
Pare che Foley vada tranquillo incontro la morte. Poi le parole
dell’aguzzino, in un inglese disinvolto, che in un cambio di
telecamera tratta Obama da pari, come fosse una televendita,
enunciando le sue condizioni nel “messaggio all’America”.
La mano
destra dell’assassino alza con un gesto brusco il mento di Foley e
il coltello comincia a tagliare la gola, anche qui nessuna apparente
resistenza da parte Foley. Non sappiamo, non possiamo sapere, cosa
succede a un uomo dopo 635 giorni di prigionia. L’immagine
successiva è il corpo riverso a pancia in giù del videomaker con
la testa poggiata sulla schiena. Ricompare l’assassino, con il
vestito pulito senza macchie di sangue a minacciare la vita di un
altro giornalista occidentale, questo a dimostrare una regia ben
studiata del video prodotto.
Un video con
una trama e quindi un montaggio che falsa il tempo affinché il
messaggio arrivi chiaro. 4 minuti e 40 secondi che destabilizzano
noi tutti. Più della cella di Guantanamo riprodotta in
un’esposizione d’arte a Parigi. Più delle numerose immagini
degli arsi vivi dal fosforo bianco, sostanza questa usata nella
Falluja oggi conquistata dall’Is, che brucia in un istante tutti i
liquidi del corpo umano. Il video prodotto da Al
Furqam Media Foundation
è stato postato sul social network Diaspora
per rimbalzare in poche ore in ogni dove del mondo telematico.
Video che di
fatto crea un consenso enorme in Occidente per chi invoca
l’immediato intervento militare. Video che viene condiviso con
favore da molte persone, in ogni parte del mondo, dalla Cecenia e da
tutti gli antiputiniani fino agli immigrati arabi di seconda
generazione che vivono a Stoccolma. Video che crea una nuova
geopolitica dalle varianti e dagli equilibri imprevedibili, che
polarizza i blocchi ma che li mina al suo interno.
Un ragazzo
a Mosca, dal nome arabo, che si ritrae tra i libri, inneggia
all’uccisione di un soldato di Assad. Il Papa parla di terza
guerra mondiale, di sicuro è la prima guerra globale, che puoi
seguire dal computer evitando anche i siti di informazione ma
attenendoti alle prove dirette degli smartphone, districandoti tra
le opposte tifoserie. Sembra già preistoria Peter Arnett che con
una sola telecamera a raggi infrarossi racconta l’attacco di
Baghdad per la Cnn durante la prima guerra del golfo. L’Is
comunica con diversi siti, alcuni in inglese come
http://jihadology.net/.
L’aggiornamento
è quotidiano, ieri potevi assistere a un convoglio di yazidi (solo
uomini) felici di convertirsi all’Islam con relativo aqiqa
(battesimo) collettivo in un lago; oggi all’arrivo di nuovi
miliziani che entusiasti e in favore di camera stracciano il
passaporto di provenienza per impugnare un kalashnikov. Non sappiamo
quale sia la reale forza dell’Is, ma forse solo adesso cominciamo
a percepire il potere evocativo di queste immagini da loro prodotte.
Anche chi
ieri era pacifista oggi scrive: quelli
dell’Isis non sono più esseri umani. Hanno deciso di non esserlo
più. Non vanno “capiti”. Se intendono sterminare il loro
prossimo, vanno sterminati. Io
rispondi che la velleità di sterminio genera sterminio. Ma nella
terra dove è morto Foley la sofferenza non è cominciata con la sua
morte. Non nascono nemmeno con l’Is. Ma con le aggressioni
occindentali della prima guerra del Golfo e l’embargo di 13 anni,
con la guerra del 2003 voluta nonostante l’avvertimento
dell’inviato speciale dell’Onu, l’algerino Lakhdar Brahimi,
allora inviato speciale dell’ONU per l’Iraq, il quale aveva
detto che la forzata ed eterodiretta debaatizzazione dell’Iraq
avrebbe portato a un ginepraio confessionale e militare. Oggi
l’Europa pensa che la soluzione sia armare il nemico dell’Is,
quindi i curdi. Ome se il precedente libico non abbia insegnato
nulla. Anche in quell’occasione la Francia era capofila
nell’armare i ribelli.
Per secoli
il motto dei governanti ai militari era: conosci il tuo nemico.
Nessuno adesso conosce l’Is ma in una terra dove le crudeltà sono
all’ordine del giorno da troppi anni sappiamo che sono anche loro
crudeli. Quello che ancora ignoriamo è quanto consenso possano
avere in questa guerra globale.