Il romanzo arabo al cinema
Uscito per Carocci editore, il nuovo lavoro di Aldo Nicosia si intitola Il romanzo arabo al cinema e propone un’analisi del rapporto tra cinema e letteratura attraverso quattro best-sellers, scritti tra gli anni ’60 e l’inizio del nuovo millennio in Egitto e Palestina. Dalla parola scritta alle immagini filmiche per entrare nella cultura e nella Storia di alcuni Paesi al centro anche dell’attualità.
Abbiamo rivolto, per voi, alcune domande ad Aldo Nicosia che ringraziamo per la sua disponibilità.
Nel suo saggio prende in considerazione alcuni dei testi classici della letteratura araba, Uomini sotto il sole, di Kanafani, Miramar, del premio Nobel Mahfuz, L’airone, di Aslan e Palazzo Yacoubian, trasposti in opere cinematografiche: in che misura e perchè, quesi testi, sono ancora attuali?
I testi che analizzo sono stati scelti secondo vari criteri. Il primo è quello cronologico, per cui ho cercato di coprire un periodo abbastanza vasto della storia letteraria, nonché sociale e politica, del paese più importante del Medioriente, l’Egitto. Il 1967, anno di pubblicazione di Miramar, può esser considerato,a più livelli,una data spartiacque per il destino del Medioriente: è la naksa, letteralmente la ricaduta, la seconda sconfitta degli eserciti arabi contro Israele. Per il mondo arabo essa si è scolpita nella memoria come il Trauma, lo shock da cui non si è mai ripreso. La sconfitta non può esser attribuita solo alla potenza bellica del nemico, ma è figlia di un sistema politico dittatoriale e corrotto. L’atmosfera di Miramar, pubblicato poco prima della naksa è malinconica e prelude alla tempesta che si sta profilando all’orizzonte. Uomini sotto il sole, del 1963, trasporta il lettore al primo shock arabo, rappresentato dalla nakba, la catastrofe del 1948, con le sue conseguenze per il popolo palestinese. Anche qui la tragedia vissuta dai tre protagonisti, che rappresentano tre diverse generazioni di palestinesi, viene accentuata dall’assenza di prospettive future. Stavolta però a remare contro i palestinesi sono i Paesi cosiddetti “fratelli”. Si tratta quindi di una lettura del conflitto sempre di tremenda attualità, se si considera come il mondo arabo, in particolare le potenze petrolifere del Golfo alleate degli Stati Uniti, ha gestito il conflitto con Israele e con l’occidente che avalla incondizionatamente, da più di mezzo secolo, il colonialismo sionista.
L’airone, di Aslan (unico romanzo dei quattro a non esser stato tradotto in italiano), ci fa affacciare sugli anni settanta in Egitto e sull’impatto tremendo che le politiche neoliberiste di Sadat hanno avuto su un Paese che usciva da una fase socialista nasseriana, con alterni risultati, e da due guerre fallimentari con Israele, quella del 1967 e quella dell’ottobre 1973. Poco dopo quella data l’Egitto viene traghettato da Sadat verso un sistema capitalistico, basato per lo più sulle importazioni e sull’apertura al capitale straniero, che scuoterà dalle fondamenta lo stato egiziano e trasformerà il Paese in una giungla di speculatori, affaristi, da cui il cittadino non riuscirà a difendersi. Il romanzo, a livello diegetico, si focalizza sui moti del 1977, che potrebbero esser considerati i più importanti movimenti di rivolta contro un sistema politico sempre più ingiusto e corrotto, prima della rivoluzione del 2011. Anche qui prevale lo stesso sentimento di impotenza, di disfatta contro un sistema dittatoriale alleato degli Stati Uniti.
Il cerchio si chiude con Palazzo Yacoubian che rappresenta il tassello successivo delle conseguenze delle scelte scellerate di un regime, quello di Mubarak, che continua sullo stesso solco del precedente. Siamo adesso all’inizio degli anni novanta, alla vigilia della Guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein. Il regime egiziano si trova allora a dover contrastare un mostro che lui stesso ha contribuito a far nascere e sviluppare (ovviamente per dividere il fronte dell’opposizione e separarla da quella di ispirazione religiosa, come i Fratelli Musulmani): l’integralismo islamico. Tale movimento riesce anche a nutrirsi dell’odio popolare in seguito alla scelta di Mubarak di unirsi alla coalizione occidentale contro l’invasore iracheno. L’atmosfera che al-Aswani regala al lettore è sempre quella di una decadenza morale, sociale, culturale, diffusa in tutti gli strati e categorie sociali. La rivoluzione del 2011 appare quindi esser figlia di un malessere che colpisce i vari protagonisti del romanzo e la stessa involuzione autoritaria cui si assiste oggi, con il generale Sisi, a me appare come la conseguenza ineluttabile di un sistema sociale ed economico iniquo, fatto di compartimenti stagni che non comunicano, esattamente come i personaggi del romanzo. Ovviamente il lieto fine è l’unica nota stonata e melò che stravolge i dati di una realtà ancora assai distopica. Il mercato editoriale egiziano è ancora vittima di una visione melodrammatica della vita, da cui le nuove generazioni sembrano sia stiano, sia pur lentamente, affrancando.
Quali sono i temi principali di cui si parla in queste opere e come sono stati affrontati dai loro autori?
Ho accennato poco prima alle tematiche prevalenti di tali testi, solo per cercare di giustificare la mia scelta dei quattro romanzi e dei loro rispettivi adattamenti. Ovviamente le tematiche dipendono anche dal momento storico in cui un’opera viene composta.
In Miramar il microcosmo della pensione alessandrina è uno stratagemma per far parlare rappresentanti e simboli dei vari strati sociali, alla vigilia della guerra del 1967. Tale pluralità di voci diventa interessante e ancor più “democratica” grazie alla tecnica del romanziere di raccontare la stessa vicenda declinata in quattro versioni, che offrono angoli visuali interessanti per qualsiasi lettore. La pensione è così arena di scontri di istanze sociali differenti che comunque non riescono a traviare il percorso di vita della protagonista femminile, la giovane contadina Zohra, simbolo di un Egitto alla ricerca di un suo spazio e di un futuro incerto, ma sicuramente positivo.
Ne L’airone rimane sempre l’esigenza di fornire un microcosmo dell’Egitto, ma stavolta più coriaceo rispetto a quello della pensione, perché rappresentato dagli abitanti di un quartiere popolare situato alla periferia del Cairo. Il senso di unità di scopo è dato dalla loro battaglia contro le scelte economiche del regime sadatiano, che stanno per distruggere per sempre un mondo semplice di condivisione, a causa degli squali della speculazione edilizia.
In Palazzo Yacoubian vivono i protagonisti delle varie vicende parallele del romanzo di al-Aswani. È uno strano microcosmo, forse poco realistico, perché essi non comunicano mai tra di loro, non si incrociano nella loro quotidianità, con una sola eccezione, verso la fine. Per questo parlavo, poco fa, di una società di monadi, divisa in compartimenti stagni, frammentata e per niente coesa al suo interno. Lo stratagemma del palazzo serve solo a far emergere aspetti di corruzione presenti dei personaggi delle varie classi, mossi solo dalla sete di sesso o di potere.
Quando fu pubblicato nel 2002, il romanzo scosse la società egiziana per il coraggio del romanziere nell’affrontare temi spinosi. Più che la denuncia spietata della corruzione politica e morale, che non è una novità nella letteratura egiziana ed araba, Yacoubian è stato un fenomeno editoriale in tutto il mondo arabo, ed anche in Europa. Tra i suoi ingredienti più piccanti c’è il tabù dell’omosessualità e l’atto di accusa diretto contro il presidente della repubblica. Nel mio saggio ho cercato di analizzare in che modo un adattamento cinematografico possa trattare tali questioni, porgendole ad un pubblico molto più vasto, rispetto a quello dei lettori, e quali dinamiche politiche legate alla censura e all’autocensura vengono scatenate rispetto alla rappresentazione visiva di tali tabù.
Dal punto di vista estetico: ci può essere un collegamento tra il Neorealismo italiano e alcuni film di cui lei parla ?
Quando si fanno parallelismi o collegamenti tra cinematografie di diversi Paesi, in questo caso, Egitto e Italia, a mio avviso bisogna stare molto cauti, perché si rischia di dar un giudizio su film di culture altrui che potrebbe esser fuorviante. Innanzitutto c’è il fattore temporale: che un film prodotto negli anni novanta o nel 2006 possa esser “storicizzato” come assimilabile ad una categoria che appartiene ad un’altra epoca non mi sembra un’operazione tecnicamente proponibile. Comunque va detto che molti capolavori del Neorealismo italiano hanno ispirato registi egiziani come Shahin, Salih, Abu Sayf, al-Shaykh, Tilmisani, ed altri, nelle loro scelte estetiche. In quel caso, si è trattato di film prodotti qualche anno dopo, o al massimo un decennio dopo quelli italiani di Visconti, Rossellini,De Sica, De Santis, ecc, e non di quelli da me analizzati.Gli adattamenti dei romanzi proposti nel mio saggio sono stati realizzati da affermati registi che hanno apertamente dichiarato di essersi ispirati ai padri fondatori del cinema egiziano. E tralaltro alcuni di essi sono stati considerati dalla critica egiziana come esponenti di una corrente neorealistica (ad es. Abd al-Sayyid, regista di al-Kitkat, libero adattamento de L’airone). Comunque, fatte tali premesse, se prendiamo in considerazione le tipiche categorie del film neorealista italiano, l’adattamento che potrebbe esser più facilmente assimilabile alla corrente neorealista è il citato al-Kitkat, che è stato campione d’incassi, all’inizio degli anni novanta ed è, a tutt’oggi, uno dei più apprezzati film di tutto il cinema egiziano.
Al-Makhdu’un (“Gli ingannati, 1972), tratto da Uomini sotto il Sole, merita a pieno titolo non solo il titolo di film neorealista, ma anche quello di film di resistenza rivoluzionaria. Prova ne è il fatto che sia stato censurato e mai proiettato dalle televisioni e nelle sale cinematografiche dei Paesi arabi.
Quali sono le similitudini e quali le differenze tra il linguaggio narrativo della letteratura e quello del cinema quando si parla di un’opera di un autore arabo? Anche la poesia è molto importante…
Nel linguaggio narrativo del cinema, come accennavo poc’anzi, prevalgono modelli estetici vari, ovviamente frutto delle influenze e delle scuole di cinematografie frequentati. Nel mio saggio mi sono occupato solo di quattro adattamenti, che rappresentano una goccia nell’oceano di adattamenti proposti dal cinema egiziano e degli altri Paesi arabi, e ho avuto anche la fortuna di imbattermi in film che si ispirano a modelli, sensibilità differenti, e prodotti in epoche differenti (così come i loro rispettivi romanzi sorgente). Ognuno di essi ha le sue peculiarità estetiche e contenutistiche, ma mi sento di poter affermare che tutti e quattro nascono da esigenze diverse: se in Miramar e Palazzo Yacoubian prevalgono interessi ideologici reazionari, uniti a quelli meramente commerciali, in al-Kitkat la maestria del regista emerge dall’esigenza di creare un’opera molto libera dallo spirito dell’originale, e anche slegata dai confini spazio-temporali del romanzo sorgente. Lo spirito universalistico del film non esclude però che lo spettatore si trovi a calarsi in una realtà egiziana popolare fino al midollo. In questo senso per me è un film poetico: il lirismo delle scene è anche legato a scelte estetiche assai originali, come la scenografia impeccabile, firmata da Unsi Abu Sayf, e una serie di musiche extradiegetiche e intradiegetiche che accompagnano i vari momenti clou del film e che forse sono la chiave del suo doppio successo, di pubblico e critica.
In Al-Makhdu’un la poesia delle immagini in movimento è creata dal montaggio e dalle speciali inquadrature, soprattutto quelle girate nello spietato deserto del Golfo. Mi azzardo anche ad affermare, con tranquillità, che la carica sovversiva e simbolica di questo film è superiore a quella del pur notevole originale. Ciò è anche dovuto al fatto che gli eventi successi nel decennio che segue la pubblicazione del romanzo, danno al regista più carne al fuoco per stigmatizzare l’atteggiamento esplicitamente reazionario e anti-palestinese dei regimi del Golfo.
Come nasce la sua passione per la cultura araba?
Prima di risponderle, mi chiedo e Le chiedo se solitamente viene posta una domanda simile a chi decide di studiare inglese, francese o un’altra lingua europea, o a chi ha la passione per i telefilm made in Usa. Stiamo quindi assumendo che la cultura e civiltà anglosassone, solo per fare un esempio, sia più “vicina” alla nostra di quanto non lo sia quella araba. Qui si fa riferimento ad un concetto di vicinanza, che non è geografica, quindi per nulla affatto neutro.
Io intendo qui riesumare tale concetto di vicinanza geografica. Le dico che forse le origini siciliane mi hanno dato l’impulso (forse inconscio?) a conoscere la civiltà dei miei vicini di casa, a sud delle nostre coste. Dopo aver visitato un paese a due passi da noi come la Tunisia, ho realizzato che chi nasce e vive nel profondo meridione d’Italia ha più cose da condividere con gli abitanti della costa sud del Mediterraneo, che non con gli Inglesi o gli Olandesi. Parlo di modi di fare, di tradizioni culinarie, costumi, etiche etc.
La Sicilia conta, tra le varie dominazioni subìte, anche quella araba, per quasi due secoli e mezzo, se si tiene conto delle date scritte sui manuali di storia. Le influenze culturali sono ovviamente rimaste oltre quel periodo ufficiale. Per rendersene conto basta soltanto leggere la nostra toponomastica, oppure osservare i cognomi o tante espressioni e lemmi del dialetto siciliano.
D’altro canto, gli stessi Paesi arabi hanno avuto, tra le varie dominazioni, anche quella greco-romana, per cui forse la vicinanza culturale con l’Italia è assai più forte di quello che normalmente si pensa.
Spostandoci poi sul fronte della diversa sovrastruttura religiosa, cioè la matrice culturale islamica, allora in questo caso qualcuno storce il naso, per riaffermare la distanza “di sicurezza” da tali culture. Io ritengo che siano state esperienze di natura diversa, come il colonialismo politico, economico etc, ad enfatizzare le differenze e far crescere sentimenti anti-occidentali o anti-cristiani. Per semplificare, i governi e le classi al potere, sia in ambito cristiano che musulmano, hanno sfruttato la religione per propri fini.
Sento anche che sia un segno di rispetto conoscere la lingua e la civiltà dei propri “vicini in geografia”, anche per un’altra ragione: è statisticamente dimostrabile che nordafricani e mediorientali conoscono molto bene le nostre lingue, culture, costumi, sicuramente più di quanto noi italiani conosciamo loro (forse per autodifesa o perché costretti, o come bottino di guerra, come disse uno scrittore algerino). Quindi, anche soltanto per ricambiare la cortesia, sarebbe opportuno studiare le varie civiltà del mediterraneo, l’arabo, le varianti del berbero, e altre lingue dell’area considerate minoritarie.