Meno male che è lunedì: il lavoro dentro e fuori dal carcere
male che è lunedì è il
titolo del documentario del giornalista e regista Filippo
Vendemmiati, già vincitore del Premio David di Donatello per il suo
lavoro filmico sulla storia di Federico Aldrovandi, E’
stato morto un ragazzo.
male che è lunedì è
stato presentato, con successo, all’ultima edizione del Festival di
Roma. Girato nelle stanze del carcere di Bologna della Dozza, in
presa diretta racconta la quotidianità dei detenuti che lavorano
nella ex palestra dell’istituto di pena, ora trasformata in officina.
I racconti intrecciano storie di vita passata con il presente e
permette un’interessante riflessione sul valore della dignità e sul
tema della giustizia.
intervistato per voi Filippo Vendemmiati che ringraziamo tantissimo
per la sua disponibilità.
racconta, brevemente, in cosa consiste il progetto “ L’Officina dei
detenuti”?
estrema sintesi: tre aziende emiliane, leader nel settore degli
imballaggi (medicinali, alimentari, sigarette) GD, Ima, Marchesini
Group, hanno costituito una società, la F.I.D. (Fare impresa in
Dozza) che ha aperto un’officina all’interno del carcere della
Dozza di Bologna, nel capannone dove prima c’era una palestra. Dopo
un corso di formazione professionale sono stato assunti a tempo
indeterminato con contratto metalmeccanico di secondo livello 13
detenuti che lavorano fianco a fianco con una decina di ex operai,
altamente specializzati, oggi in pensione, provenienti dalle tre
stesse aziende che hanno promosso il progetto. Si lavora secondo il
principio dell’isola di montaggio, le lavorazioni sono ad alto
contenuto tecnologico. La F.I.D. non fa assistenza, tanto meno
beneficienza. Ha un proprio bilancio a cui rispondere e produce
utili. Una volta scontata la pena c’è l’impegno a riassumere i
detenuti nell’indotto esterno del settore, è già avvenuto in
quattro casi. I “detenuti liberati” sono reintegrati da altri che
scontano la loro pena nel carcere della Dozza. In genere provengono
tutti dal reparto penale, con pene definitive superiori a 5 anni.
quanto tempo ha seguito la quotidianità delle persone – libere e non
– che vediamo nel film? E che tipo di relazioni si instaurano tra
loro?
stati con troupe e telecamere circa un mese nel carcere della Dozza.
4 settimane non consecutive per lasciare soprattutto a noi il tempo
di assorbire e rielaborare emozioni e punti di vista molto potenti e
coinvolgenti. Abbiamo tentato in tutti i modi di non essere invasivi,
di non far pesare la nostra presenza. E’ stato molto meno difficile
del previsto. La realtà dell’officina si è aperta come d’incanto
e ci è parsa subito uno spazio di libertà. Il rapporto con tutor e
detenuti è stato profondo e senza ostacoli tanto da farmi scattare
subito una domanda, forse ambiziosa e presuntuosa, e che sta alla
base del film. Mi sono chiesto: è possibile parlare di carcere come
un luogo di vita, seppur temporaneamente reclusa, un luogo abitato da
persone e non da reclusi? Persone che sognano, che parlano e
scherzano tra loro, perché condividono l’appartenenza ad un
progetto collettivo che li fa uscire dalle gabbie dell’individualismo
in cui la segregazione li rinchiude?
anche l’occasione di ascoltare le loro storie: cosa sperano per il
presente e per il futuro?
parlato a lungo con i detenuti. Nello spogliatoio dell’officina,
tra un caffè e una sigaretta durante i minuti di pausa, ci hanno
parlato a lungo di loro stessi, ci hanno in alcuni casi consegnato i
loro racconti scritti. Questo è avvenuto con grande spontaneità,
quasi naturalmente, senza che nessuno di noi glielo abbia mai chiesto
direttamente. Ognuno di loro apre una finestra diversa, sarebbe
stato un film nel film, o meglio un altro film. Perché in realtà
ho scelto di non raccontare in modo approfondito la storia di ogni
detenuto. Non mi interessavano i motivi e gli errori che li hanno
portati in carcere. Come con grande realismo racconta un operaio: -Se
sono qua, qualcosa avranno fatto, ma a me non interessa. Per me in
officina sono dei colleghi e basta-. Il film ci racconta della
dimensione umana delle persone, del rapporto che cresce attorno al
lavoro e in parallelo al manufatto che mani sapienti insieme
costruiscono. Qualcuno ha detto che questo film parla più di lavoro
come valore che del carcere come luogo chiuso. L’uomo non è solo
quello che ha commesso e se in carcere si entra colpevoli, a meno che
non si sia vittime di errori giudiziari, si deve uscire innocenti.
Questo prescrive la nostra costituzione e l’esempio virtuoso
dell’officina dei detenuti indica che è possibile applicarla.
avete vissuto l’esperienza della realizzazione del documentario e del
festival ?
sceneggiatura è nata dopo un lungo lavoro di selezione delle tante
ore di materiale girato e durante il montaggio. Solo in questa fase
mi sono reso conto anche della forza espressiva che un racconto così
costruito avrebbe potuto avere. Durante le riprese non tutto era
chiaro, avevamo forti emozioni e qualche idea, ma nulla di
precostituito. Tutte le scene che compaiono nel film sono state
riprese dal vivo, nessuna è stata preparata a tavolino. E quando
qualcosa ci è sfuggito perché in quel momento eravamo disattenti o
semplicemente altrove. Abbiamo scelto di non rifare, ci avrebbe
rimesso la spontaneità del film. Il festival di Roma per noi tutti è
stata una grande festa. Avevo personalmente promesso a Roberto, un
detenuto oggi in permesso lavorativo esterno, di portarlo sul
red-carpet. Non ero stato molto convincente e non mi aveva creduto,
ma in fondo allora non ci credevo neppure io. Portarlo al Festival di
Roma insieme a Fathim, a Mirko e ad una decina di operai, farli
sfilare tutti insieme davanti a decine di fotografi, là dove passano
le star del cinema, è stata una gioia indescrivibile. Noi in corteo,
fischietti in bocca, dietro allo striscione Meno male è Lunedì, il
titolo del film, eravamo lì a dire siamo gli evasi, quelli che
evadono dai luoghi comuni per invitare tutti, anche il cinema, ad
essere meno evasivo sui temi che attengono ai diritti umani e ai
diritti delle persone.
detenzione può e deve essere riabilitativa?
risposta è scontata, ma io non voglio incorrere nell’errore di
passare per uno esperto di problematiche carcerarie. C’è chi da
anni se ne occupa, lavora duramente all’interno degli istituti di
pena e si scontra quotidianamente con muri culturali, burocratici e
legislativi. Io ho fatto solo un film e ho tentato di raccontare
quello che ho visto. Posso solo dire che ho una formazione culturale,
che non pretendo sia condivisa, che mi porta ad essere contrario
all’ergastolo, alla “pena di morte viva”, sono contrario alle
carceri e alle detenzioni speciali. Come diceva il cardinal Carlo
Maria Martini una società civile non cerca pene alternative, ma
alternative alle pene.
L’Associazione per i Diritti Umani dedica questa intervista a Stefano Cucchi e alla sua famiglia.