Yemen. Perché questo non è un conflitto settario
Silvia Battaglia (da
Osservatorio Iraq)
della crisi yemenita, per districarsi nella complessa realtà di un
paese a composizione tribale, con un paio di governi succedutisi
nell’arco di 35 anni, entrambi abbastanza lontani dal soddisfare
le esigenze della popolazione, nonché la fortissima ingerenza
internazionale e delle sigle terroristiche sul terreno, in genere i
media non trovano di meglio che liquidare ciò che risulta loro
incomprensibile con la frase: “questo è un conflitto settario”.
Lo Yemen, con l’evidenza di
gruppi armati che si contendono il controllo del territorio, a volte
interposti, a volte sovrapposti all’esercito governativo regolare
e/o alle tribù che compongono il tessuto sociale nella sua reale
articolazione, sembra attualmente un crocifisso che si agita tra la
conservazione della sua anima maggioritaria sunnita e la necessaria
acquisizione di una seconda anima sciita.
Come un moribondo che non
abbia scelta, lo Yemen viene letto come uno Stato “imploso”, il
regno del “caos”, l’esempio del “fallimento transizionale”,
la sempiterna “tana di Al Qaeda” ma soprattutto, il
luogo-quintessenza del plurisecolare conflitto “sunniti-sciiti”
dove, in controluce, si agitano l’Iran da una parte e l’Arabia
Saudita dall’altra, con gli Usa che, come al solito, non stanno a
guardare e inviano droni.
Vorremo cercare di spiegarvi che
le cose non stanno esattamente in questi termini e che è possibile
fornire una lettura complessa di quanto accade nel paese, senza che
essa risulti ostica e/o incomprensibile.
Va fatta una premessa: dopo la
cosiddetta Primavera araba, i tre anni di transizione, che si
sarebbero dovuti concludere con elezioni democratiche nel febbraio
2014, hanno evidentemente fatto acqua da tutte le parti.
Il cosiddetto “modello
yemenita” di risoluzione della crisi, tanto portato in palmo di
mano da Obama, dalla UE e da tutti gli attori che hanno favorito e
incoraggiato la Conferenza per il Dialogo Nazionale, non ha avuto
l’esito sperato.
Perché la società tribale
yemenita ha una sua complessità, certo, ma soprattutto perché si è
riproposto il solito, annoso problema: ossia la concentrazione del
potere e dei privilegi in poche mani, quelle del neo presidente Hadi
e quelle della famiglia al-Ahmar che, unita al debito pubblico del
paese nei confronti del Fondo Monetario Internazionale e del vicino
saudita, lo hanno sprofondato in una crisi economica seguita da
ulteriore scetticismo nei confronti di chi era preposto a
risolverla.
Se l’esito è stato
nullo, rispetto alla prevista “roadmap”, il processo ha avuto un
merito: quello di interessare alla politica una generazione che nel
febbraio 2011 era andata in piazza e che oggi, durante le sedute di
masticazione del qat
o nei giochi di quartiere tra ragazzini, parla di democrazia,
giustizia, Conferenza per il Dialogo Nazionale.
E se si inerpica in discorsi in
cui viene menzionata Al Qaeda o gli Houti, non menziona con la
stessa frequenza le parole ‘sunnita’ o ‘sciita’. Non c’è da
stupirsi. Tranne in specifiche situazioni, l’iscrizione o
l’appartenenza a un madhab
(scuola religiosa di pensiero) viene raramente menzionata in
conversazioni ordinarie in Yemen.
Certo non si può dire che
non ci siano tendenze settarie o spaccature tra gruppi tribali in
Yemen, ma la lotta di potere che si sta profilando ai nostri giorni
non può essere liquidata solo con le differenze storiche e
teologiche tra sunniti e sciiti.
Nella lettura dei media, per
esempio, invale la cattiva pratica secondo cui dire Houti equivale a
dire sciiti, il che equivale a dire zayditi.
Innanzitutto va detto che molti
componenti del partito Ansarullah, comunemente noti come Houti, sono
zayditi, ma anche provengono da varie scuole religiose di pensiero
sciita e sunnita, tra cui ismaili, shafii, e jaafari.
Molte tribù e molti
soldati si sono uniti agli Houti e combattono al loro fianco. In
realtà, leader shafii di spicco come Saad Bin Aqeele, un mufti di
Ta’iz, sono tra gli Houti più influenti: sono intervenuti nei
sermoni del venerdì e da un sit-in, prima dell’avanzata dei ribelli
sulla capitale.
Secondariamente, gli zayditi
condividono dottrine e opinioni giurisprudenziali simili con
studiosi sunniti. Le differenze teologiche, paragonate alle
questioni di coesione sociale, tra cui la lealtà tribale, il
potere, il controllo, lo sviluppo e il finanziamento della sicurezza
sociale per la popolazione, sono relative.
Al punto tale che i
musulmani in Yemen, pur se provenienti da varie scuole di pensiero,
sunnite o sciite, pregano insieme, si sposano senza “conversioni”
forzate, ed episodi di violenza sociale fondati sull’appartenenza
confessionale finora sono stati rarissimi.
Non tutti gli zayditi sono
peraltro Houti: molti studiosi zayditi sono problematici rispetto
alla adesione politica ad Ansarullah.
Gli Houti vengono sempre
considerati la longa
manu dell’Iran in
Yemen e paragonati tout court ad Hezbollah. Posto che la loro fonte
di ispirazione è chiara e immagini di Nasrallah campeggiano ovunque
nei loro sit-in, e che la teocrazia di matrice khomeinista pare
essere la loro benzina politica, le loro azioni non hanno come scopo
quello di stabilire principalmente un ordine politico zaydita. Così
come se l’adesione al partito dei Fratelli Musulmani Islah è
prevalentemente sunnita, non significa che Islah stesso abbia
lavorato strenuamente per ristabilire il califfato.
Piuttosto va detto che non
si può leggere questo conflitto senza comprendere che la
composizione della società yemenita è prima di tutto tribale.
Quando si punta il dito sugli Houti, mancano quasi sempre delle
analisi profonde del legame tra la povertà rurale, le contestazioni
politiche e i conflitti.
Non è possibile comprendere la
capacità degli Houti di aggredire la capitale Sanaa se non si
ricorda che il governo di transizione ha ignorato a lungo le
rimostranze della popolazione, arricchendo le fila degli scontenti
che hanno supportato Ansarullah.
La goccia che fece
traboccare il vaso fu la revoca delle sovvenzioni ai combustibili da
parte del governo durante la notte nel 29 luglio 2014.
Senza preavviso l’aumento del
prezzo del carburante e del gasolio schizzò dal 60 e al 90 per
cento. Le proteste di massa scoppiate successivamente sono state
capitalizzate dagli Houti, che hanno guadagnato un numero
significativo di nuove adesioni da diverse tribù e da tutte le
fasce sociali.
Un capitolo a parte lo
merita la capacità di tutti gli attori politici in Yemen nel
tessere nuove alleanze che vadano a scompaginare le vecchie e
precedenti solo per il gusto – come nel gioco afghano del buskazi
– di
portare alla meta la capra, e dunque vincere, contro chiunque.
Se questo conflitto fosse stato di
natura settaria e avesse avuto radici antiche, l’ex presidente Ali
Abdullah Saleh (che è tecnicamente un zaydi) non si sarebbe
impegnato in sei guerre consecutive contro gli Houti, dal 2004 al
2010.
Ma soprattutto oggi non avrebbe
formato un’alleanza temporanea con i suoi ex nemici, come
testimoniano le intercettazioni dello scorso ottobre tra l’ex
dittatore e Abdul Wahid Abu Ras, uno dei leader del movimento Houti.
Nemmeno la detenzione di
attivisti e giornalisti in recenti proteste si è basata su
questioni settarie. Gli Houti fanno ciò che faceva Saleh, che ha
già fatto Hadi e che hanno fatto tutti, qui: hanno messo il
bavaglio a chi li metteva sulla graticola, indipendentemente dalla
provenienza tribale o settaria.
Ultima questione: la lettura
secondo cui ciò che accade in Yemen venga da una regia occulta che
ha le sue stanze dei bottoni in Usa, Iran e Arabia Saudita è quanto
meno riduttiva della storia del paese e delle responsabilità dei
suoi governanti.
Vero è che, per
innumerevoli motivi, lo Yemen è stato tirato per la giacchetta da
molti attori internazionali, ma non va dimenticato che puntare il
dito solo sul settarismo o solo su influenti manovre esterne
equivale ad assolvere il governo di transizione dalle sue funzioni
che ha abbondantemente disatteso.
Anche addossare agli Houti una
valenza teologica alle loro violazioni non va bene poiché esse
hanno solo una precisa connotazione politica, e relativa alla
politica interna.
Essa soltanto è il vero e tuttora
irrisolto nocciolo della questione “crisi in Yemen” e avrà il
suo capitolo decisivo nella battaglia appena iniziata per il
possesso del Marib: l’area dove il 75% delle risorse energetiche
non sfruttate e mai messe a disposizione per la popolazione locale
(petrolio e gas) sono il vero, succoso e irrinunciabile motivo
dell’apparente caotico contendere.