Palestina, il voto italiano e le due letture dalla Terrasanta. Saeb Erekat e Yael Dayan: bene il riconoscimento. Ma Israele plaude per il contrario
l’edulcorazione di alcuni passaggi, le
due mozioni che sembrano eludersi a vicenda,
tutto questo relativizza ma non cancella la sostanza politica
dell’evento consumatosi oggi a Montecitorio: dopo Francia, Spagna,
Gran Bretagna, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Belgio, Svezia,
Lussemburgo, anche il Parlamento italiano si è espresso per il
riconoscimento dello Stato di Palestina. Decisione sofferta,
ritardata, con contraddizioni interne, ma la cui valenza politica,
oltre che simbolica, non sfugge al Governo israeliano che puntava
molto sull’
“amico Matteo”
perché l’Italia non si unisse, neanche con qualche distinguo
filoisraeliano, al coro dei “filopalestinesi”.
Così non è stato. O almeno
questa è la lettura di chi vede il bicchiere mezzo pieno (sul
fronte palestinese) rispetto al voto di Montecitorio. Quel voto
intenderebbe rappresentare anche un sostegno a “Lady Pesc”,
Federica Mogherini, che non ha mai nascosto la sua speranza
di veder nascere uno Stato palestinese,
a fianco d’Israele, durante gli anni del suo mandato di Alto
Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione
Europea.
Il voto porta con sé strascichi
di politica interna, di letture “retrosceniste” sulle dinamiche
interne alle varie anime del Partito Democratico, sulla spaccatura
nella maggioranza poi ricomposta, almeno all’apparenza, con il
parere favorevole del governo a due mozioni: quella Pd, sostenuta
anche da Sel, che ha ottenuto 300 voti favorevoli e 45 contrari; e
quella stilata da Nce e Ap-Sc, approvata con 237 voti favorevoli e
84 contrari, e che ha già aperto discussioni sul “messaggio”
che la fronda di sinistra pieddina ha inteso lanciare al premier
“decisionista”.
Strascichi, per l’appunto.
Perché la sostanza è ben altra e investe il senso di marcia della
nostra politica estera, soprattutto nell’area per noi più
nevralgica, sul piano geopolitico e per la difesa degli interessi
nazionali: il Vicino Oriente. Un Vicino Oriente in fiamme: dalla
Libia alla Siria, dall’Iraq alla Palestina. Ad affermarsi, nel
mondo arabo, sono “Generali” o “Califfi”, mentre in
difficoltà, se non in rotta, sono le leadership moderate. Come
quella del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’
“intifada diplomatica” da lui voluta era ed è anche una
risposta alle spinte militariste che prendono corpo dall’azione
dei “lupi solitari” palestinesi e, soprattutto, dall’affermarsi
anche in Cisgiordania e a Gaza dei gruppi salafiti vicini allo Stato
islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
“C’è il diritto dei
palestinesi a un loro Stato e il diritto dello stato di Israele a
vivere in sicurezza di fronte a chi per statuto vorrebbe cancellarne
l’esistenza. La soluzione è quella dei due Stati, per la quale la
comunità internazionale si pronuncia da tempo, il che vuol dire il
diritto dei palestinesi a un loro Stato e il diritto dello Stato di
Israele a vivere in sicurezza, di fronte a chi vorrebbe addirittura
per statuto cancellarne la stessa esistenza”, ha rimarcato il
titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, nel suo intervento in
Aula.
Il testo presentato dai
democratici impegna il governo “a continuare a sostenere in
ogni sede l’obiettivo della Costituzione di uno Stato palestinese
che conviva in pace, sicurezza e prosperità accanto allo Stato
d’Israele, sulla base del reciproco riconoscimento e con la piena
assunzione del reciproco impegno a garantire ai cittadini di vivere
in sicurezza al riparo da ogni violenza e da atti di terrorismo”.
C’è quindi l’impegno per il governo a “promuovere il
riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano
entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa,
tenendo pienamente in considerazione le preoccupazioni e gli
interessi legittimi dello Stato di Israele”.
Un messaggio, quest’ultimo che
intendeva essere rassicurante per il governo israeliano. E in parte
c’è riuscito, vista la prima reazione
a caldo dell’Ambasciata d’Israele:
“Accogliamo
positivamente – recita una nota dell’Ambasciata – la scelta del
Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di
aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i
palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via
per conseguire la pace. Così come scritto all’inizio della mozione:
“La soluzione potrà essere raggiunta soltanto attraverso i
negoziati”. Tutti i governi d’Israele, a partire dagli accordi
di Oslo, hanno accettato e fatto propria l’idea di due Stati per due
popoli. Dopo le elezioni e la formazione di un nuovo governo in
Israele a marzo , è necessario che i palestinesi decidano di
tornare al tavolo delle trattative senza precondizioni, per portare
avanti la pace e la sicurezza fra i due popoli”.
Resta il fatto che la nota
dell’Ambasciata israeliana glissa sul fatto che, nella mozione Pd,
si fa esplicito riferimento a uno Stato palestinese “con
Gerusalemme quale capitale condivisa” e a uno Stato “sovrano
entro i confini del 1967”: due punti su cui il governo israeliano
in carica si è detto sempre contrario.
Di segno opposto a quella della
sede diplomatica dello Stato ebraico a Roma, sono le reazioni, e le
letture, date a caldo dai palestinesi e dagli israeliani aperti
sostenitori del dialogo. “Il voto del Parlamento italiano è un
atto politico importante, che può dare un nuovo impulso al
negoziato e far capire ai governanti israeliani che l’Europa
intende giocare un ruolo da protagonista nello scenario
mediorientale”, dice all’Hp il capo negoziatore dell’Anp, Saeb
Erekat. “Il problema – aggiunge Erekat – non è dichiararsi a
parole favorevoli al negoziato, ma esserlo con i fatti. E ogni atto
compiuto dai governanti israeliani è andato nella direzione
opposta: dalla colonizzazione dei Territori all’assedio di Gaza”.
Sulla stessa lunghezza d’onda è
Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare
laburista, una
delle 800 personalità israeliane firmatarie di un appello rivolto
all’Europa
perché riconoscesse lo Stato di Palestina. “Apprezzo la scelta
del Parlamento italiano – dice la figlia dell’eroe della Guerra
dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan, raggiunta telefonicamente a
Tel Aviv dall’Hp – e da israeliana che ha combattuto per la
sicurezza del proprio Paese, non la considero un atto di ostilità,
ma al contrario di amicizia verso Israele. Penso questo perché sono
convinta che la nascita di uno Stato palestinese non rappresenti un
cedimento al “nemico” ma un investimento sul futuro per Israele.
Un futuro che le destre mettono a repentaglio, riproponendo una
politica fondata su una cultura militarista, cavalcando
l’insicurezza e vendendo una illusione: quella di una pace a costo
zero”.
“È terribile odiare ed essere
odiati per così tanto tempo. È estenuante occupare ed essere
occupati per così tanto tempo. Questa liberazione riguarda anche
noi israeliani”, le fa eco David Grossman, tra i più affermati
scrittori israeliani, anche lui, come Yael Dayan, tra i promotori
dell’appello all’Europa.
Resta la rabbia dei falchi. Il
pronunciamento del Parlamento italiano interviene nel vivo della
campagna elettorale in Israele – si vota il 17 marzo – e a pochi
giorni dal viaggio negli Stati Uniti di Benjamin Netanyahu –
parlerà al Congresso ma non sarà ricevuto dal presidente Barack
Obama – e stride con quanto sostenuto dai leader delle destre
dello Stato ebraico, decisamente ostili, per ragioni ideologiche o
di sicurezza, alla nascita di uno Stato palestinese, con o senza
negoziati diretti. Un tema, questo, che è parte della campagna
elettorale in corso, nella quale le destre sottolineano che non c’è
differenza fra Hamas e l’Isis, e che Abu Mazen ha scelto di
“governare con i terroristi (Hamas, ndr) sacrificando la pace”.
Sul versante opposto, il leader
dei Laburisti, Yitzhak Herzog, mette in evidenza come “le chiusure
di Netanyahu hanno rafforzato gli estremisti nel campo palestinese e
incrinato le relazioni tra Israele e l’Amministrazione Obama”.
Herzog ha anche annunciato che, se diventerà primo ministro, si
farà promotore di un “piano Marshall” per la smilitarizzazione
e la ricostruzione di Gaza.
In proposito, a sei mesi dal
cessate il fuoco che ha messo fine all’operazione “Protective
Edge”, Oxfam ha lanciato l’allarme sulla disperata situazione in
cui ancora versano gli 1,8 milioni di persone che vivono nella
Striscia, a causa delle carenze e progressive riduzioni delle
quantità di materiali da costruzione in entrata a Gaza. A farne le
spese sono le circa 100.000 persone, di cui la metà bambini, che
ancora sono costrette a vivere in rifugi e sistemazioni temporanee,
mentre decine di migliaia di famiglie vivono in abitazioni
gravemente danneggiate dai bombardamenti della scorsa estate. Senza
la fine del blocco israeliano a Gaza – avverte l’Ong con sede
centrale a Londra – ci vorrà oltre un secolo per completare la
ricostruzione di case, scuole e ospedali.
Herzog – un dei leader del
“Blocco sionista” di centrosinistra – ha anche sottolineato che
“pace e sviluppo degli insediamenti sono tra loro inconciliabili”.
L’esatto opposto di ciò che pensano, e fanno, le destre
israeliane. Secondo uno studio dell’associazione israeliana Peace
Now, i
bandi per le nuove costruzioni sono triplicati dal 2013 rispetto al
precedente governo, sempre guidato da Netanyahu. Sono state fatte
4.485 gare d’appalto nel 2014 e 3.710 nel 2013 (2007 erano state
meno di 900). L’incremento demografico annuale dei coloni è di
circa il 5,5%, contro l’1,7% degli altri israeliani.
Le considerazioni avanzate dal
leader laburista israeliano sullo stato (pessimo) dei rapporti tra
Netanyahu e Obama trovano conferma nelle parole della la consigliera
per la sicurezza nazionale del presidente Obama, Susan Rice, secondo
cui la visita che il premier israeliano farà a Washington il 3
marzo sarà “distruttiva”. E a Netanyahu, che rilancia la
linea “interventista” contro l’Iran, il segretario di Stato
Usa, John Kerry, risponde seccamente: ci ha spinto a invadere
l’Iraq, visto com’è finita?
Per il riconoscimento dello Stato
di Palestina si batte da tempo Mairead Corrigan Maguire, premio
Nobel per la pace nel 1976: “Se i governi europei avessero un
sussulto d’orgoglio, se credessero davvero a quei principi
universali di cui si fanno vanto – afferma Maguire – allora non
dovrebbero perdere un attimo in più e seguire l’esempio svedese,
compiendo un atto riparatorio che sarebbe dovuto accadere già da
tempo: riconoscere lo Stato palestinese. Per farlo non c’è
bisogno del “permesso” d’Israele”.