Gli ospedali psichiatrici giudiziari, in graphic novel
Per Antonio, 25 anni, quell’edificio fortificato nella prima periferia della sua città è sempre stato, semplicemente, “il manicomio”. La scoperta di quello che avviene dentro quelle mura, le vite delle persone (gli internati, ma non solo) che lì dentro passano la maggior parte delle loro giornate, e la scoperta di tutte le tensioni e i conflitti che gli si muovono intorno, lo porterà a trasformare la sua paura iniziale in una consapevolezza necessaria, ma non sempre piacevole.
Abbiamo rivolto alcune domande a Antonio Recupero che ringraziamo.
Il libro nasce da una sua esperienza personale: ce ne vuole parlare?
Quando mi sono laureato avevo 25 anni, e facevo parte di uno degli ultimi scaglioni tenuti alla leva obbligatoria. Come moltissima altra gente, senza particolari spinte ideologiche, optai per il servizio civile sostitutivo, considerandola una alternativa “comoda”. Riuscii ad essere assegnato presso un circolo ARCI della mia città, Barcellona Pozzo di Gotto, alle cui attività partecipavo abitualmente. Come scoprii, questo non mi dava diritto a nessun trattamento di favore (per fortuna, dico ora). Tra le varie attività in cui venne richiesto il mio impegno, ci fu quella della risocializzazione di alcuni gruppi di internati dell’OPG locale. Io a malapena sapevo cosa era un OPG, e nell’accezione comune lo si definiva abitualmente “il manicomio”. E’ ovvio quindi che la cosa mi spaventò non poco all’inizio. Ma la conoscenza della realtà dell’OPG, e degli internati come uomini vivi, pensanti, con fantasie, desideri e pulsioni che i farmaci riuscivano a malapena a mascherare e mai a sopprimere, mi ha fatto cambiare prospettiva molto in fretta. Le loro storie, anche se spesso terribili, erano affascinanti, e meritavano di andare oltre le mura e le sbarre che li contenevano.
Quali sono le condizioni, all’interno dell’OPG, sia per gli internati sia per gli operatori?
Gli OPG, come la galera, sono istituzioni totalizzanti, al di là delle loro finalità. Chi ci è costretto, ma anche chi ci lavora, si ritrova a vivere in una realtà assoluta e distante anni luce da quella che consideriamo abitualmente “la società civile”. Per alcuni internati, la privazione della libertà è quanto di più antiterapeutico possa esserci, e credo di poter dire questo sulla scorta di quanto emerso negli anni: valutazioni di pericolosità sociale rilasciate con leggerezza e in maniera preventiva e presuntiva hanno di fatto condannato ad un ergastolo bianco decine, se non centinaia, di persone che avrebbero potuto condurre vite normali con l’aiuto delle giuste terapie e con sostegno specialistico, e che invece hanno avuto la sorte di commettere un reato, spesso lieve, per via di una situazione di alterazione psichica. E se la malattia mentale (che una volta giuridicamente, comportava la c.d. incapacità di intendere e di volere, e quindi la non punibilità) diventa un motivo di colpa in sè e comporta pene più severe del normale, è evidente che vi è di fondo una aberrazione sia giuridica che umana. Chi si trova a lavorare a contatto con gli internati, che per primi patiscono questa situazione aberrante, rischia, come provato scientificamente, di sviluppare a sua volta situazioni di alterazione psicologica, stress e ansie, che si risolvono a volte in situazioni di abuso, a volte invece in una empatica incondizionata e acritica. E difficilmente si riesce a concepire, in entrambi i casi una nuova vita fuori dall’istituzione, per quanto intensamente la si desideri.
Quali segni ha lasciato, dentro di lei, quell’esperienza?
Sicuramente una maggiore consapevolezza di un fenomeno che è stato per troppo tempo ignorato per questioni di comodo, o peggio strumentalizzato da varie parti politiche. Proprio per questo ho voluto concentrarmi sulle persone, sul lato umano della questione, tralasciato con troppa frequenza.
Quali sarebbero le attività di risocializzazione dedicate ai ricoverati? E risultano efficaci?
Intanto qualunque esperienza possa ridurre il senso di emarginazione e di coercizione è sicuramente utile. Parlare agli internati, portarli fuori dalle mura in cui si sentono costretti, concedergli qualche “fuga” se vogliamo metterla così. E in ogni caso la prima attività di risocializzazione e di terapia per gli internati è sempre il lavoro, perché è l’elemento che permette alle persone di costruire qualcosa nella loro vita, e di entrare in una fase “progettuale” della loro vita privata e sociale.
Parliamo anche dei disegni di Jacopo Vecchio che accompagnano i testi e della scelta di unire immagini e parole…
Con Jacopo si è creata subito una buona sintonia sulla storia, e ha saputo centrare immediatamente le fisicità di molti personaggi, associandoli perfettamente al loro carattere e, in alcuni casi, alla patologia che si portavano appresso. Nei primi studi aveva lavorato con uno stile molto complesso, fortemente caratterizzato, per poi invece scegliere di personalizzarlo di più, lavorando in sottrazione e arrivando ad una sintesi più efficace e meno appariscente. Nelle scene in cui appaiono gli internati, la linea chiara lascia spazio a delle sfumature di grigio che vanno ad accrescere la profondità delle scene. Il risultato è sotto gli occhi del lettore, che viene catturato immediatamente anche a livello visivo nei punti in cui il focus narrativo è più intenso. La scelta del fumetto ha permesso di raccontare questa realtà particolare con un approccio diverso, e il talento di Jacopo ha valorizzato particolarmente questa scelta.