Iraq e Yemen: cosa sta succedendo? Ne parliamo con Laura Silvia Battaglia
Abbiamo realizzato, per voi, questa intervista alla giornalista Laura Silvia Battaglia che ringraziamo molto. Le seguenti riflessioni sono state approfondite in un incontro pubblico organizzato dall’Associazione per i Diritti Umani, di cui a breve pubblicheremo il video.
Ci può parlare della situazione attuale in quella parte del mondo?
E’ pronto e apparecchiato un nuovo assetto regionale che vede completamente ridisegnati gli accordi di Sykes-Picot e configura ormai l’Iran da un lato e l’Egitto dall’altro come potenze regionali a garanzia di equilibrio e a salvaguardia degli interessi economici e della stabilità delle aree del Medio Oriente in ottemperanza al contrasto al terrorismo di matrice islamista. In base a questa configurazione, ne escono completamente sconfitte le dirigenze dei Fratelli musulmani in tutti i Paesi in cui avevano preso piede, esclusa la Turchia e il Qatar, economicamente e politicamente stabili, e la supremazia regionale dell’Arabia Saudita, unico e fedele interlocutore degli Stati Uniti nell’area, prima della riapertura del dialogo con l’Iran.
Quali sono le conseguenze, soprattutto per l’Occidente?
Dobbiamo definire cosa si intende per Occidente. In questo caso le conseguenze sono solo per l’Europa e gli Stati Uniti lo sanno molto bene. L’Europa sta già pagando gli effetti di insensate occupazioni militari in Iraq e Afghanistan, di azioni militari di sostegno a nuovi assetti politici, come nel caso della Libia, rese necessarie dalla dipendenza energetica e a cui l’Europa ha partecipato, e di un coacervo di interessi strategici ed economici posizionati nell’area del Mashreq dove il bubbone del conflitto siriano ha avuto come primo effetto la diaspora del popolo siriano, in conseguenza di un conflitto che non si è concluso e di una tragedia quasi apparentabile al genocidio che si sta consumando nel silenzio internazionale. Le conseguenze sono già: 1. Una pressione dei flussi migratori sempre più difficile da governare 2. La sempre maggiore dipendenza energetica (gas e petrolio) da aree interessate da conflitti (a Nord Europa in Ucraina e Russia, a Est nell’area Mediorientale, indoiranica e degli Stan) 3. Una radicalizzazione culturale dentro l’Europa che mina a destabilizzare una secolare coesistenza, soprattutto nelle metropoli, di persone di diverse etnie, provenienze, religioni, usi e costumi.
Ci può aiutare a capire meglio la differenza tra Islam religioso e Islam politico?
L’Islam è una religione monoteista millenaria, la più diffusa al mondo e la più in crescita in aree in cui non era originariamente presente. E’ un messaggio dalla forza straordinaria, che chiede al fedele un’adesione a principi abbastanza logici e razionali, che l’uomo può comprendere facilmente, rispetto all’esistenza di Dio. L’Islam ha inoltre una straordinaria base scientifica che ha conquistato molti intellettuali e scienziati. L’Islam tradizionale poggia saldamente su questi principi basilari, sui 5 pilastri, e al suo fedele non chiede altro, sostanzialmente. Inoltre, ha una lunga tradizione giurisprudenziale e di sapienza condivisa nei secoli e una riflessione intellettuale sulle sue fasi storiche e politiche (il califfato abbasside, la successione dell’impero ottomano, la dinastia safavide, la fitna tra sunniti e sciiti e così via). L’Islam politico si sviluppa e cresce durante il periodo neo-coloniale con una grande impennata in due momenti storici: dalla prima Intifada, dove il conflitto israelo palestinese rimane il cuore di tutte le guerre in area mediorientale e, successivamente, con la lunghissima guerra afghana per la liberazione dall’invasore russo. Qui, la resistenza dei mujahiddin, che per forza di cose sono musulmani, ha una virata molto forte verso la componente identitaria islamica subito dopo l’azione di influenza degli Stati Uniti nella regione. Il movimento dei Taliban è il cuore di questa trasformazione e, come si sa, inizia a stressare il concetto di Jihad grande (ossia di sforzo, superamento e lotta della limitatezza umana che è in noi) minimizzandolo rispetto al concetto di Jihad piccolo (ossia la lotta contro l’infedele per un torto subìto). Contestualmente, si fa molta strada, inizialmente incoraggiato dalla dinastia saudita wahabita, il movimento salafita (che al suo interno ha diverse sfaccettature) e che, in sostanza, ha come finalità la destoricizzazione dell’Islam e la sua cristallizzazione in una parola rivelata i cui suggerimenti vanno presi esattamente alla lettera, validi per ogni epoca storica. Il salafismo, grazie anche all’azione di predicatori globali sul web, ha avuto enorme presa su molti giovani musulmani, anche trapiantati in Occidente e/o su occidentali convertiti (islamicamente si dice “ritornati”) all’Islam. E’ su questa base di coltura che Isis ha fatto presa, unendo la predicazione attiva dei Taleban e di al Qaeda (lo sforzo, il jihad) alla destoricizzazione dell’Islam di matrice salafita. Questa saldatura spiega perché Isis si proponga come un neo-stato con aspirazione imperialista e millenarista per restituire alla umma (la comunità dei fedeli musulmani) il suo antico ambito territoriale, identificato con le terre conquistate ai tempi del califfo Abu Bakr al Siddiq (632 dC). In questo, non c’è nulla di strano. Isis enfatizza e potenzia il messaggio dell’Islam come religione di giustizia (che infatti è religione di giustizia, perché Allah è giusto e la sua misericordia fa parte del suo modo di amministrare la giustizia) per attrarre chi trova in esso una ragione concreta e una alternativa alla globalizzazione consumistica dominante, non solo nel mondo occidentale ma anche nel cuore dell’Islam stesso, nell’Arabia Saudita dei petro dollari, dell’applicazione della sharia e, da oggi, anche dei sexy shop halal. Per questo esso mira sostanzialmente a depurare le aree di originaria presenza islamica da ogni elemento culturale di interferenza, primi fra tutti i musulmani che si sono ibridati o meticciati, storicizzando l’Islam, accettando di convivere con persone di altre confessioni religiose e gruppi etnici o, addirittura, idolatri o non credenti, il che, per Isis è assolutamente inaccettabile. Il fine ultimo, dunque, è eliminare qualsiasi coesistenza etnica e religiosa nelle aree dove Isis stesso è presente. Se volessimo utilizzare una definizione acida, Isis è un nuovo nazismo in salsa halal.
Parliamo anche degli errori e delle mancanze, da parte della stampa italiana, in tema di politica estera e di geopolitica…
Mi permetto di dire che buoni professionisti e cattivi professionisti esistono dappertutto, in Italia e all’estero. Per cui un tabloid americano non è che brilli particolarmente per transparency e accuracy della notizia. Ma è un fatto che l’Italia, parlando di media mainstream che si propongono come informatori di qualità, tratta in modo pessimo le notizie e gli approfondimenti di esteri. Ci sono motivazioni storiche e motivazioni strutturali. Le storiche: siamo un Paese che non ha un passato coloniale e questo, nel bene e nel male, condiziona la nostra stampa. Non c’è grande interesse per gli esteri perché, banalmente, di rado ci abbiamo messo piede, di rado ci abbiam lasciato le penne. Questo spiega perché, ad esempio, qualsiasi notizia che venga dalla Libia venga invece trattata e approfondita in proporzione esponenziale rispetto alle altre: perché è l’unico Paese dove abbiamo avuto un passato coloniale più forte e dove abbiamo impiantato un quasi solido neocolonialismo del mercato energetico. Le motivazioni strutturali riguardano il modo con cui sono organizzate aziende come la Rai, agenzie come Ansa o Agi, quotidiani come il Corriere della Sera: poco innovative e agili dal punto di vista tecnologico, estremamente sindacalizzate, amministrativamente elefantiache, con una cattiva gestione centrale delle risorse economiche, sperperi ingiustificati, privilegi di cui la categoria ha goduto per anni senza averne reale motivo, e scarsissimo uso di risorse esterne che vengono affamate oppure a cui, in cambio di servizi occasionali di qualità, vengono proposte in contraccambio due lire. In questo i media italiani sono poco lungimiranti e gli effetti si vedono. Si aggiunga a tutto questo uno sport che dipende solo da noi giornalisti: utilizzare come scusa la pressione che si richiede al nostro lavoro di battere la notizia prima di altri o di andare on line velocemente per aumentare il traffico sul web, per non verificare le notizie. Dalle cattive traslitterazioni alla diffusione virale di bufale, alla incapacità di comprensione dei meccanismi che guidano la diffusione di immagini sui social media, complice l’ignoranza linguistica di molti redattori e capi redattori, il gioco è fatto.
Torniamo all’Iraq e allo Yemen: in che modo viene messa in atto la resistenza in questi Paesi?
Durante il 2011 ci sono state proteste sia in Iraq che in Yemen. Nel primo Paese sono state vivissime nell’area di Anbar, con mediatizzazione pari a zero. In sostanza, i giovani delle aree, appartenenti alle minoranze sunnite, protestavano contro la finta democrazia del presidente Nuri al Maliki. Vennero contrastati dall’esercito regolare e messi in prigione. Fine delle trasmissioni. In Yemen si può dire quasi lo stesso: la sollevazione popolare fu contro anni di dittatura, quella dell’ex presidente Saleh, e venne presto messa in mano per essere poi direzionata dal partito dei Fratelli Musulmani, l’Islah che, come in Egitto, non fece altro che costruire un apparato di privilegi e privilegiati, escludendo di fatto i giovani dalla ricostruzione politica, e appoggiandosi ad altri uomini forti o gruppi tribali forti come la famiglia al-Ahmar. Sappiamo tutti come è andata a finire: transizione fallita, nessuna ricostruzione, crisi economica e debiti spaventosi, guerra. I giovani di questi Paesi chiedono solo tre cose: sostenibilità delle loro vite (un lavoro); sicurezza nei loro Paesi, senza dittature e guerre; libertà di critica e di espressione. Ma dimenticano di pretendere una cosa fondamentale e di battersi per essa: dopo la piazza ci vuole l’accesso alla costruzione della nuova comunità politica, ci vogliono i partiti. E i giovani non hanno finanziamenti e cercano sempre dei padrini, anche a motivo di una cultura che ha sacro rispetto per gli anziani. La storia recente ci ha insegnato purtroppo che i padri hanno fatto di tutto per tenere al guinzaglio i figli. E quel che è più triste, li hanno usati solo come carne da macello nelle piazze per poi rinnegarli e lasciarli marcire nelle prigioni al momento giusto. E’ su questo anello che bisogna lavorare ma non sarà possibile farlo finché a queste popolazioni, per i motivi più disparati, non sarà concesso l’accesso all’istruzione primaria, secondaria e universitaria e non solo alle elité, figlie di establishment dittatoriali o di famiglie politicamente ed economicamente compromesse con l’Occidente e che di questo ne fanno uno strumento di prestigio, superiorità e privilegio sociale fino all’arroganza, alla corruzione e alla discriminazione sociale.