Abolire il carcere?
Francesco Lo Piccolo (direttore
di “Voci di dentro” – da Huffigton Post, 9 maggio 2015)
“Abolire
il carcere – una ragionevole proposta per la sicurezza dei
cittadini”,
libro edito da Chiarelettere scritto da Luigi Manconi, Stefano
Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Centoventi pagine
(compresa la postfazione di Gustavo
Zagrebelsky)
nelle quali si affronta un tema spinoso come quello del carcere per
dire in sostanza, finalmente, che è arrivato il momento di
abolirlo.
Certo una battaglia non facile,
specie in questi tempi – a mio avviso – dove lo slogan “più
galera” spunta da ogni parte, in ogni momento, per qualunque
cosa. Oliato e alimentato. Slogan acefalo, soddisfazione viscerale
che alle volte mi tocca sentire anche tra gli stessi carcerati. È
proprio vero che dal male nasce solo male. Prova provata di un
sistema che non risolve il problema in sé, ma semplicemente e con
gran convinzione lo allontana, segregandolo, nascondendolo nelle
periferie. Sistema grigio e lontano. Ignorato nella sua realtà ma
sempre presente. Il toccasana. In realtà il toccasana che non sana
un bel nulla, medicina placebo, rimedio pronto e infallibile, cura
del male con la creazione della vittima sacrificale. Dunque
perfettamente efficiente.
Ma torno al libro, a questo
percorso per l’abolizione della moderna galera, per l’abolizione di
questa istituzione nata appena 250 fa e che invece mi appare
percepita come antichissima, quasi preistorica, del tipo “così
è sempre stato, così sempre sarà”. Il ragionamento che fanno
gli autori, e che mi trova ovviamente in accordo, nasce da alcune
semplici considerazioni, ovvero dal fatto che il carcere, come si
legge nella parte centrale, è:
1) intollerabile
(degradazione e non rieducazione, un luogo fatto di sbarre e celle
dove rinchiudere i propri simili come “animali feroci”,
come dice Zagrebelsky),
2) insostenibile
per i costi
(3 miliardi all’anno in grandissima parte spesi per il personale e
per il funzionamento del sistema, lasciando ai detenuti per il vitto
poco più di 24 milioni annui),
3) inutile e incapace di
garantire la sicurezza dei cittadini (non riduce il tasso di
criminalità, al contrario è scuola di criminalità, affinando le
capacità delinquenziali di chi viene incarcerato),
4) inefficace
come strumento di punizione, o come sistema per “insegnare”
ai detenuti a non delinquere di nuovo (sette
condannati su dieci commettono un nuovo reato
dopo aver scontato la pena; ad esempio nel 1998 su 5.772 persone
scarcerate, sette anni dopo ben 3.951 sono tornate in carcere,
ovvero il 68,45 per cento),
5) afflizione e tortura (vedi
sentenza Torregiani del 2013, e sentenza Sulejmanovic nel 2009),
6)
gratuita violenza (vedi i casi di Asti, Parma, o l’uccisione di
Stefano Cucchi).
Ed è da qui, secondo Manconi,
Anastasia, Calderone e Resta, che nasce appunto la “ragionevole
proposta per la sicurezza dei cittadini” frutto di un atto di
coraggio contro la società carcero-centrica. “È arrivato il
momento di osare” scrivono gli autori. Dove osare per me
significa più semplicemente tornare a ripercorrere un pensiero di
civiltà, come una specie, a me pare, di antica strada maestra,
quella strada che un tempo veniva percorsa non tanto con coraggio ma
piuttosto con buon senso e senso civile. Nel 1985 il tema
dell’abolizione del carcere fu al centro di un convegno che si tenne
a Parma organizzato da Mario
Tomassini,
morto nel 2006, grande nome della psichiatria italiana, amico di
Basaglia,
da sempre in prima fila contro manicomi e istituzioni totali.
Nel 1945 subito dopo la Guerra, il
padre dell’Europa libera e unita Altiero
Spinelli,
così scriveva in una lettera indirizzata a Pietro
Calamandrei:
“Più penso ai
problemi del carcere più mi convinco che la riforma carceraria da
effettuare è quella di abolire il carcere penale e sostituirlo con
un luogo dove sia possibile una vita normale, controllata da
magistrati, con possibilità di guadagnare, di sposarsi, di aver
casa, di vivere civilmente”.
E non è certo un caso che nella
nostra Costituzione non ci sia mai la parola carcere e piuttosto si
parli di pene che non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità. Dunque una proposta che va accompagnata – come
scrivono Manconi, Anastasia, Calderone e Resta – con una rivoluzione
di tipo culturale, giuridica e politica. Ovvero con modifiche che
“riducano l’ambito dell’applicazione del carcere sostituendolo
con misure limitative della libertà (extramurarie) solo nei casi
più gravi e per il resto con sanzioni di natura interdittiva,
patrimoniale o riparatoria”. In definitiva con la “riduzione
del diritto penale”. Una specie di passo indietro, se intendo
bene il pensiero degli autori, del potere-strapotere del
giudiziario. Il tutto attraverso un programma diviso in dieci punti
che rappresenta la via per arrivare alla definitiva abolizione della
prigione. In sintesi:
1) diritto penale come
extrema ratio,
2) eliminazione dell’ergastolo e riduzione delle
pene detentive,
3) decarcerizzazione nel codice e nella
legislazione penale speciale,
4) giurisdizione penale minima,
5)
eliminazione della carcerazione preventiva,
6) sanzioni invece
che carcerazioni,
7) garanzie e rieducazione effettiva per i
carcerati colpevoli di gravi reati,
8) umanizzazione e
superamento dell’alta sicurezza e 41 bis,
9) escludere il carcere
per i minori,
10) fine delle misure di sicurezza detentive.
Perché nessuno, nemmeno
Berlusconi, spiegano, deve andare in galera.
A pagina 120 così
scrive al termine della postfazione il profesor Zagrebelsky:
In una società che
prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il
diritto mirare a riparare la frattura? Da qualche tempo si discute
di giustizia ripartiva, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in
corso. Una prospettiva nuova e antichissima, al tempo stesso, che
potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali
concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto
sociale…
Dunque un libro da leggere. Per
capire.