Un angolo di Eritrea a Milano
di Igiaba Scego
(da
“Internazionale” 5 maggio 2015)
trionfale, così appare porta Venezia, una delle sei principali
porte di Milano, al visitatore. Il quartiere noto per i suoi
ristorantini alla moda è tra i più amati dagli under 30 milanesi.
Certo gli spritz, gli apericena l’hanno resa trendy e al passo con
i tempi, ma porta Venezia è qualcosa di più profondo. Di fatto
racchiude in sé una storia complessa fatta di separazioni e
ricongiungimenti, una storia che odora di caffè caldo e cardamomo,
una storia che la lega all’Africa come nessuna.
Infatti da tempo il
quartiere è il ritrovo della comunità eritrea-etiope che dagli
anni settanta del secolo scorso ha fatto di questa zona il centro
della propria esistenza. Ed è sempre qui che gli eritrei di oggi,
in fuga dalla dittatura feroce e insensata di Isaias Afewerki,
cercano rifugio dopo essere approdati a Lampedusa con una carretta
scassata. Sanno che a porta Venezia una zuppa calda e qualcuno che
sa parlare la loro lingua lo troveranno di sicuro. Porta Venezia è
Milano, ma è anche Asmara. È Italia, ma anche Eritrea.
Il colonialismo
italiano, diceva nel suo bel libro Rifugiati
lo scrittore somalo Nuruddin Farah, occupa un territorio coloniale
ambiguo nella coscienza degli italiani. Infatti l’Italia spesso
non si ricorda di aver avuto un legame storico con Libia, Somalia,
Etiopia ed Eritrea. Disconosce il vincolo e quando poi arrivano i
rifugiati proprio da quei paesi un tempo colonizzati (e spesso
brutalizzati) non riesce a tracciare una linea che la colleghi a
quell’intreccio di corpi. È più facile dimenticare. E così si
dimenticano non solo le nefandezze del periodo coloniale, ma anche
quelle più moderne fatte di affari sporchi con i dittatori di turno
e di rifiuti sversati in mare o tombati nelle zone di pascolo.
L’Africa, come diceva Ennio Flaiano, rimane ancora lo sgabuzzino
delle porcherie e meno se ne parla meglio è.
Ma ormai, per
fortuna, fioccano le contronarrazioni. Ed ecco che il
docufilm Asmarina
di Alan Maglio e Medhin Paolos ci regala una panoramica su una
comunità, quella eritrea-etiope, presente nel territorio da decenni
di cui però si è sempre parlato molto poco. Il titolo, tratto da
una canzone coloniale degli anni trenta, è già di per sé
evocativo. Il docufilm nasce per accumulazione. Colpisce, fin dalle
prime scene, la presenza ossessiva e permeante delle fotografie
dovuta a un grande lavoro di ricerca da parte dei registi.
schermo si riempie di bambine sorridenti, ragazzi con jeans a zampa
di elefante, signore con il tradizionale abito bianco. E poi feste,
celebrazioni, preparazioni di focacce e caffè, treccine
svolazzanti, orecchini arcobaleno. E piano piano una comunità di
adulti si popola di bambini. Generazioni si mescolano e quasi si
confessano davanti alla telecamera, mai invasiva, di Alan Maglio e
Medhin Paolos. E sotto i nostri occhi una comunità si svela nelle
sue più intime e delicate sfumature.
C’è la scrittrice
Erminia dell’Oro figlia di italiani, di vecchi coloni, nata in
Eritrea che si sente africana e non importa se ha la pelle bianca,
Eritrea per lei è casa. Il dj Million Seyum, chiamato non a caso il
Sindaco, che sa come far ballare i suoi compaesani, ma che in ogni
sua parola è profondamente asmarino, ma anche profondamente
milanese. La famigliola riunita intorno a un libro di fotografie
(Stranieri
a Milano
di Lalla Golderer e Vito Scifo che diventerà uno degli assi
portanti del docufilm) sa come commuoverci con gli antichi ricordi
di famiglia.
E poi c’è Michele
figlio di un pugliese mai conosciuto e di un’eritrea, cresciuto in
un collegio di suore a suon di punizioni corporali, rimpatriato in
un’Italia mai veramente sua. Colpisce inoltre la forza di Helen
Yohannes, calciatrice/mediatrice culturale che ha dedicato il suo
tempo ad aiutare i rifugiati perché guardando quelle facce così
simili alla propria sa che quel destino poteva toccare a lei e si
rimbocca le maniche per attutire come può quelle sofferenze.
Fotogramma dopo
fotogramma scopriamo una comunità molto attiva negli anni
settanta-ottanta, organizzata, unita. C’era la lotta per
l’indipendenza a dare identità. Ed ecco le riunioni in teatri
gremiti, i volantinaggi, le assemblee, le manifestazioni, le storie
d’amore nate intorno a tutta quella politica. E poi la gioia
immensa di essere un paese. C’è chi pensava di tornare ad Asmara,
di ricostruire là il poco di avvenire rimasto. E poi dal paradiso
agli inferi di oggi, prima un conflitto insensato con l’Etiopia
per un confine senza importanza e poi la dittatura che sta facendo
fuggire tanti giovani che preferiscono rischiare la traversata
attraverso il Mediterraneo che marcire nelle grinfie di un regime
protetto anche da occidente.
Ed ecco che i registi
non nascondono le fratture all’interno di una comunità. Una
divisione in filogovernativi e oppositori, tra chi si sente eritreo
o chi eritreo-etiope. E in mezzo c’è l’Italia, Milano. Una
città-casa che a volte sa abbracciare e a volte no. Asmarina
racconta tutto questo e molto altro. Racconta l’Italia come
recentemente sono riusciti a fare in pochi.