La vita non facile dei diritti riscoperti dalle sentenze
di
Luigi Ferrarella (da “Corriere
della sera” 15 maggio 2015)
permettere?
Quanti
diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può
tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni
fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene
implicitamente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte
costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo,
Corte di cassazione) arriva una sentenza all’incrocio di un
dilemma: adesso tra rivalutazione delle pensioni e vincoli di
bilancio, ma già in passato tra danni dell’inquinamento Ilva alla
salute di Taranto e destino degli operai e dell’acciaio italiano, e
prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruzione e invece
esigenze extragiudiziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima
ancora tra impopolarità del tema carceri e condizioni inumane di
vita di chi sta in prigione. E si può già scommettere riaccadrà
nelle prossime sentenze che scioglieranno nodi sulle questioni di
bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazionalità
fiscali e esigenze dell’erario, o che incroceranno assetto degli
statali e nuove regole per i dipendenti pubblici.
Sotto sotto, è
come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci
possiamo permettere? Un retropensiero talmente sdoganato da nutrire
reazioni sempre più insofferenti alle conseguenze di sentenze
ripristinatorie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state
percepite come ovvie riaffermazioni (di eguaglianza, dignità, equità
sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di
Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché
commissariata dallo scippo giudiziario della sua facoltà di decidere
tra più alternative possibili e di imporre questa scelta senza lacci
e lacciuoli.
È un’insofferenza che trasuda già dalle parole
usate da governo e parlamentari per definire la sentenza della
Consulta sulle pensioni: «danno alla credibilità del Paese»,
verdetto che «scardina», decisione che (se applicata in toto)
causerebbe conseguenze «immorali». Così, dopo ciascuna di queste
sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non
applicarle, oppure — se proprio non è possibile disattenderle
completamente — almeno di contenerle, di arginarne la portata, di
neutralizzarne gli effetti, di mitridatizzarne le conseguenze.
Plastico l’esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti
dell’uomo di Strasburgo all’Italia per le condizioni inumane e
degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in
questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su
piccoli «rimedi compensativi» (8 euro al giorno per il passato,
oppure lo scomputo di un giorno ogni dieci sulla pena ancora da
scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l’85
per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata
inammissibile, e soltanto l’1,2 per cento di richieste di
risarcimento era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che
accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge
sulla tortura, in teoria introdotta sull’onda di un’altra
condanna dell’Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di
Genova), ma in realtà parcheggiata (dopo approvazione in prima
lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromesso al
ribasso.
Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta
che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più
insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della
crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l’urgenza
della disoccupazione, la disabitudine alla ricerca di soluzioni che
non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che
inevitabilmente complesso non sia tagliabile con l’accetta, tutto
congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai
magistrati nei gradi inferiori) di
subordinare le proprie decisioni a
«compatibilità» con equilibri di volta in volta
politici-sociali-economici e di assumere come parametro la
«sostenibilità» dei propri atti. Con la conseguenza che non sembra
più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella
misura in cui esse siano compatibili con i bilanci statali, o
appaiano socialmente accettabili, o risultino «digeribili» dalle
esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o
siano empatiche con le emozioni dei cittadini.
Il che illumina due
sottovalutazioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il
quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici
costituzionali di propria competenza influisce e di fatto altera la
vita della Consulta, dove indiscrezioni attribuiscono ad esempio la
contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del
presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda
sottovalutazione, in prospettiva, è di quanto la combinazione tra
nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciare, a favore
delle artificiosamente rafforzate maggioranze politiche di turno, le
quote di giudici costituzionali e di componenti laici che spetta al
Parlamento eleggere rispettivamente
alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratura.