Riflessioni su possibili strumenti di ingresso protetto di richiedenti protezione internazionale sul territorio europeo
mani nude, senza altra scelta. Passo in rassegna i volti a uno a uno,
la piazza universale
delle donne e degli uomini che porto con me
verso un altro mondo.
Fratelli miei, non ci hanno vinti. Siamo
ancora liberi di solcare il mare”Luther
Blisset, “Q”
europea – pur a fronte di grandi dichiarazioni di principi,
sacralizzate nella Carta di Nizza e nella Convenzione europea dei
diritti dell’uomo – ha fino ad oggi affrontato la questione
dell’ingresso sul territorio europeo di migranti e richiedenti
protezione internazionale prevalentemente alla stregua di un problema
di sicurezza, che si è tradotto in investimenti volti a rafforzare e
a controllare la frontiera esterna dell’UE.
Intanto, dal 2000 al
settembre 2014[1]
le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere
l’Europa sono state almeno 22.000; nel solo 2014, sono 3.072 i
migranti morti nel Mediterraneo, oltre il doppio rispetto al medesimo
periodo del 2013.
Le persone che cercano di attraversare
irregolarmente le frontiere europee sono nella maggioranza dei casi
uomini, donne e bambini costretti ad abbandonare i loro Paesi in
guerra o sottoposti a regimi brutali: provengono dal Corno d’Africa,
dall’Africa Centrale, dall’Iraq e dall’Afghanistan, da quel che
resta delle Primavere Arabe e, oggi, dalla Siria, Paese ove la guerra
ha causato la morte di oltre 190.000 persone.
Sono, nella grande
maggioranza dei casi, persone che ai sensi della Convenzione di
Ginevra e della Direttiva Qualifiche[2]
avrebbero pieno diritto alla protezione internazionale.
La domanda
è naive,
ma viene da sé: perché persone che il nostro sistema riconosce
quali soggetti da proteggere rischiano ogni giorno la propria vita
per varcare le nostre frontiere?
La risposta si trova nella stessa
normativa europea[3]:
i richiedenti asilo possono infatti presentare la loro domanda di
protezione solo allorquando si trovino già sul territorio
dell’Unione europea.
Il viaggio verso l’Europa è dunque il
presupposto necessario per accedere all’asilo, e rimane,
paradossalmente, affare dei migranti: e, come già osservato nel
1999, dal Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati (ECRE)
durante il Consiglio di Tampere «il miglior sistema europeo di
riconoscimento del diritto d’asilo sarebbe comunque ben poca cosa,
se alle persone in cerca di rifugio non è data alcuna possibilità
di beneficiarne fino a quando non abbiano raggiunto la stessa
Europa».
Per fermare, o quantomeno ridurre, la tragedia che
avviene nel Mediterraneo da decenni e il traffico di migranti su cui
prosperano le organizzazioni criminali sarebbe pertanto necessario e
doveroso, come richiesto da tempo da molte ONG, superare l’attuale
quadro normativo e riuscire ad approntare soluzioni strutturali – e
non già emergenziali – volte a realizzare un meccanismo di tutela
per i richiedenti asilo precedente, e non già successivo, agli
oramai noti “viaggi della speranza”, che permetta agli stessi un
accesso effettivo e sicuro alla protezione internazionale di cui sono
riconosciuti titolari.[4]Gli
strumenti giuridici a disposizione delle istituzioni per contrastare
tale paradosso esistono, e questo lavoro si propone di analizzarne
brevemente le caratteristiche.
Prima di intraprendere la predetta
analisi, è opportuno segnalare che, oltre alle gravi carenze
relative alla possibilità di ingresso sul territorio europeo,
l’azione dell’Unione e degli Stati membri – salvo alcuni casi
virtuosi – si è dimostrata sinora insufficiente anche per ciò che
riguarda il trattamento che viene riservato a coloro che riescono ad
arrivare nel territorio europeo: gli standard di accoglienza non sono
adeguati, il c.d. sistema Dublino ha creato una situazione di
disuguaglianza sostanziale cui l’Unione non pare interessata a
porre rimedio, i migranti sono spesso sottoposti ad una detenzione de
facto e non esiste a
livello normativo una strategia unica che garantisca,
sostanzialmente, il rispetto e il riconoscimento della dignità di
costoro, come singoli e nelle formazioni sociali.
Con l’auspicata
introduzione di procedure di ingresso protetto, non si potrà
pertanto prescindere anche da un ripensamento, o addirittura un
superamento, del sistema Dublino.
Il recente Regolamento UE n.
604/2013 (c.d. Regolamento Dublino III) che ha sostituito,
abrogandolo, il Regolamento 343/2003/CE, pur recependo, almeno in
parte, le garanzie sancite dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo[5],
non ha modificato nella sostanza le procedure di determinazione dello
Stato competente all’esame delle domande di asilo (i cosiddetti
“criteri gerarchici”).
Ancora adesso, dunque, il sistema
Dublino assegna – nella maggior parte dei casi – la
responsabilità di esaminare la richiesta di protezione
internazionale (e di farsi carico della successiva accoglienza) allo
Stato membro di primo arrivo del migrante, così determinando una
forte pressione sui Paesi membri che si trovano ai confini
dell’Unione europea.
In molti casi questi Paesi non hanno saputo
(o voluto) apprestare condizioni di asilo e accoglienza adeguate, con
il risultato che – si veda l’esempio della Grecia, della
Bulgaria, ora anche dell’Italia – sempre più numerose sono state
le pronunce giurisprudenziali che hanno annoverato questi paesi tra
quelli “non sicuri”.
A ciò si aggiunga che, più in generale,
gli Stati membri adempiono agli obblighi internazionali relativi alla
protezione dei rifugiati con modalità che spesso determinano
significative differenze dei sistemi di accoglienza e delle
possibilità di integrazione dei migranti.
Questa situazione ha di
fatto creato, all’interno dell’Unione, un fenomeno di intensa
mobilità – nuovamente irregolare – dei richiedenti asilo, i
quali, nel tentativo di presentare domanda di protezione nel Paese in
cui effettivamente vorrebbero stabilirsi, si trovano costretti ad
attraversare illegalmente i territori degli Stati membri.
Tentando
di sfuggire ai controlli di frontiera – molto spesso con l’ausilio
di trafficanti, pagati a caro prezzo – gli stessi cercano di
evitare di essere identificati e quindi di dover radicare l’iter
per il riconoscimento della protezione in uno Stato membro in cui
rischiano di veder violati i propri diritti fondamentali (si veda il
caso della Grecia) o che non è in grado di garantire loro le tutele
minime previste dalle normative europee, o ancora in cui non
sarebbero in grado di trovare un lavoro che consenta loro una vita
dignitosa.
In quest’ottica, da un lato, si sarebbero auspicabili
procedure di ingresso che consentissero di attribuire priorità,
all’interno dei criteri gerarchici, alla volontà del richiedente,
con elementi correttivi fondati su legami reali fra il richiedente e
lo Stato membro; dall’altro, si dovrebbe raggiungere una completa
armonizzazione delle normative nazionali in materia di asilo con
meccanismi efficienti volti a garantire solidarietà ed equità tra
gli Stati, secondo quanto previsto dall’art. 80 TFUE, insieme ad un
piano di azione non più lasciato alla discrezionalità degli Stati,
ma fondato sull’obbligatorietà di un intervento europeo, in modo
tale da garantire su tutto il territorio dell’Unione i medesimi
standard di accoglienza.
strumenti a disposizione dell’Unione Europea e dell’Italia
europea e i singoli Stati membri hanno già avuto modo di
sperimentare – al di fuori di un quadro normativo organico –
modalità di riconoscimento della protezione internazionale che
garantiscono in maniera enormemente più efficace la sicurezza fisica
dei richiedenti asilo (nonché l’arrivo “ordinato” degli
stessi, con conseguente possibilità di approntare più efficaci
sistemi di accoglienza).
Si tratta in alcuni casi di strumenti
utilizzati sinora soltanto per particolari situazioni di emergenza,
in altri casi di modalità di riconoscimento dell’asilo che erano
un tempo adottate da singoli Stati membri e che poi – proprio a
causa delle politiche europee, per un beffardo fenomeno di
eterogenesi dei fini – sono state dismesse.
Tali strumenti sono:
i)
le Procedure di Ingresso Protetto (PEP) ii)
la prassi dei
reinsediamenti, in inglese resettlement,
promossa dall’UNHCR, iii
) le operazioni di
evacuazione umanitaria, anche dette “corridoi umanitari”; iv)
un più pieno utilizzo delle possibilità previste dal sistema dei
visti Schengen.
Nei prossimi paragrafi si approfondirà brevemente
ciascuno di tali strumenti.
procedure di ingresso protetto (PEP)
procedure di ingresso protetto (PEP) sta complessivamente ad indicare
tutte quelle procedure che permettono allo straniero di richiedere la
protezione internazionale ad un potenziale Stato ospite fuori dal
territorio di quello Stato e, in caso di riscontro positivo a tale
richiesta, di accedervi in tutta sicurezza e legalità.
Le
procedure di ingresso protetto hanno dunque l’obiettivo di evitare
gli ingressi illegali – e i viaggi nelle mani dei trafficanti ad
essi connessi – dei richiedenti asilo nel territorio che dovrebbe,
o potrebbe, riconoscere agli stessi la protezione internazionale.
Tali procedure permettono altresì agli Stati ospiti di decidere
preventivamente e ordinatamente, sulla base delle proprie capacità e
possibilità di accoglienza, il numero e il tempo degli arrivi dei
richiedenti asilo sul proprio territorio.
I luoghi naturalmente
deputati – in assenza di specifici uffici – a raccogliere le
richieste di ingresso e di protezione internazionale sono le
ambasciate e i consolati presenti nello Stato di provenienza o di
transito dei richiedenti asilo, che andrebbero all’uopo preparate e
rafforzate; il loro regime giuridico ovvia al problema – posto da
alcuni – secondo il quale il richiedente asilo non potrebbe
procedere alla richiesta direttamente nel suo Paese, poiché la
“fuga” dal pericolo che tale Paese rappresenta per il richiedente
asilo è un elemento essenziale per il riconoscimento della
protezione internazionale.
Generalmente, nei casi in cui tale
sistema è applicato[6],
le procedure di ingresso protetto sono disciplinate da leggi
ordinarie che stabiliscono il ruolo delle ambasciate, il loro
rapporto con le commissioni centrali che decidono circa
l’accoglibilità della richiesta di protezione internazionale, la
possibilità per il richiedente di entrare nel Paese ospite solo una
volta ottenuta la protezione internazionale ovvero (come previsto
dalla maggioranza delle PEP) anche nel caso in cui la richiesta
risulti prima facie
accoglibile, con
svolgimento delle successive pratiche direttamente nello Stato ospite
e con relativo – seppur temporaneo – permesso di soggiorno.
Tale
regolamentazione delle PEP si distingue dall’asilo diplomatico vero
e proprio che, invece, è un atto meramente politico deciso dalle
autorità di uno Stato volta per volta per singoli individui[7],
salvo il caso unico dell’Olanda, che concede l’asilo diplomatico
temporaneo anche a gruppi di persone in caso di eccezionale
emergenza.
resettlement
reinsediamento o resettlement
si indica quella procedura tramite la quale viene consentito ai
richiedenti asilo di trasferirsi da luoghi non sicuri – per
esempio, da campi profughi – a Stati che abbiano deciso di
accordare agli stessi la protezione internazionale e il conseguente
permesso di soggiorno.
Le procedure di resettlement
sinora sono state sempre coordinate dall’UNHCR che stabilisce quali
siano le persone che maggiormente necessitano di tale forma di tutela
e si coordina con gli Stati che decidono di partecipare a tale
programma.
Una importante procedura di resettlement
è stata recentemente attivata dall’UNHCR a favore dei profughi
siriani: come si legge in un comunicato dell’Alto Commissariato
pubblicato in data 27 giugno 2014, dal 2013 ad oggi 33.837 persone
sono state trasferite dalla Siria ed accolte in numerosi Paesi del
mondo; con specifico riferimento ai rifugiati siriani, il Paese
europeo più virtuoso è stato la Germania, che ha accolto oltre
20.000 persone. L’Italia rimane invece a zero.
Tale strumento
sarebbe senza dubbio una soluzione durevole al problema in esame ma
al momento è ancora poco utilizzato. Nel 2011 – ultimi dati
globali diramati dall’UNHCR – le persone che hanno beneficato
della procedura di reinsediamento sono state 61.231 – ovvero
soltanto l’1% di coloro che, sempre stando alle stime dell’Alto
Commissariato, avrebbero diritto alla protezione internazionale –
di cui 42.215 accolte dai soli Stati Uniti. In Europa, lo Stato più
virtuoso nel 2011 è stato la Svezia (1.900 reinsediamenti), seguito
da Danimarca, Finlandia, Olanda, Regno Unito; l’Italia in
quell’anno ha reinsediato sul proprio territorio soltanto 151
persone. L’Unione europea si è dotata di un Programma comune di
reinsediamento soltanto nel 2012.
corridoi umanitari
termine “corridoio umanitario” convenzionalmente indica
determinate zone che, in caso di conflitto, vengono demilitarizzate e
protette da contingenti – normalmente delle Nazioni Unite – per
permettere il passaggio di aiuti umanitari a popolazioni che si
trovano in situazione di particolare emergenza. Il più vasto uso di
corridoi umanitari è stato fatto in passato durante la guerra nei
Balcani. I corridoi umanitari possono essere stabiliti anche con il
fine di permettere l’evacuazione dei profughi da una zona di guerra
o dai campi in cui costoro siano stati costretti a sostare e il loro
trasferimento in Stati disposti ad accoglierli, nei quali gli stessi
potranno avviare le pratiche per il riconoscimento della protezione
internazionale.
Lo strumento è stato normalmente utilizzato sotto
l’egida delle Nazioni Unite e ciò a causa della natura
eminentemente negoziale dello stesso, che viene attivato in
situazioni di eccezionale emergenza e che deve essere avallato – o
imposto con la forza – anche dagli Stati o dai gruppi che
quell’emergenza l’hanno creata. In linea teorica, in ogni caso,
nulla impedisce che l’Unione europea o un singolo Stato possano
attivare operazioni del genere senza il necessario – e difficoltoso
– intervento dell’ONU, a patto però che l’UE o lo Stato in
questione dispongano di un potere negoziale sufficiente per ottenere
la creazione di un’area protetta in cui svolgere le operazioni di
salvataggio dei profughi.[8]I
corridoi umanitari attivati sinora per l’evacuazione dei profughi
hanno avuto alcune caratteristiche peculiari: la durata temporale
limitata e precisa, il riferimento ad un particolare gruppo di
persone in situazione di eccezionale emergenza (in rilievo vengono
dunque le necessità di protezione del gruppo e non dei singoli), la
preventiva fissazione di quote di rifugiati da ospitare da parte
degli Stati disponibili all’accoglienza degli stessi.
Tali
caratteristiche renderebbero lo strumento in questione certamente
adatto ad alleviare temporaneamente la pressione ai confini
dell’Europa e a permettere la sicurezza di molti migranti che oggi
si trovano in procinto di intraprendere il viaggio via mare o via
terra: pare però d’altro canto evidente che le operazioni di
evacuazione umanitaria, per le citate caratteristiche, non potrebbero
essere uno strumento di risoluzione stabile della questione oggetto
di esame, che non è legata ad un’emergenza temporanea ma ha
assunto negli anni la forma di un fenomeno strutturale del nostro
tempo.
Peraltro, la natura negoziale ed emergenziale di tale
strumento, e dunque il fatto che il corridoio umanitario si attivi
senza precise e prestabilite obbligazioni giuridiche in capo ai
soggetti che lo realizzano, lascia alcuni dubbi circa il fatto che
con tale modalità si possano garantire al meglio i diritti dei
soggetti titolari di protezione internazionale.
Senza dubbio avere
operazioni di evacuazione coordinate dalla Unione europea e con norme
comuni a tutti gli Stati partecipanti sarebbe un passo in avanti
verso l’affidabilità di tale sistema.
Nessuna operazione di
evacuazione umanitaria è stata fino questo momento coordinata
dall’Unione europea: si segnala però una recente comunicazione
della Commissione, che invita le istituzioni europee a lavorare al
fine di predisporre dei canali umanitari onde evitare quanto sta
accadendo nel Mediterraneo (Com//2013/869); a tale Comunicazione non
è però ad oggi seguito alcunché.
visto umanitario
procedure brevemente illustrate nei paragrafi precedenti
rappresentano senza dubbio strumenti di straordinaria rilevanza per
offrire una soluzione duratura ed efficace al problema oggetto di
esame, ma, al momento, pare del tutto assente la volontà politica di
procedere in tale senso.
Un’alternativa di maggiore fattibilità
sia giuridica che pratica è offerta dalla stessa normativa europea:
si tratta del visto c.d. umanitario che, se utilizzato, potrebbe
limitare grandemente gli ingressi illegali – e i viaggi della
speranza – in Europa.
La relativa disciplina è contenuta in due
regolamenti europei, il Codice delle frontiere[9]
ed il Codice dei visti[10]
Schengen. Il primo, all’art. 5, par. 4, lett. c), prevede la
possibilità per gli Stati membri di consentire l’ingresso per
motivi umanitari anche a cittadini di Paesi terzi che non posseggano
i requisiti per l’ingresso alle frontiere esterne previsti dal par.
1 dello stesso articolo. La rappresentanza diplomatica non dovrebbe
farsi carico, così, della valutazione (anche sommaria) della domanda
di protezione, ma si limiterebbe a rilasciare un visto per motivi
umanitari, di durata limitata. La fattispecie è disciplinata
all’art. 25 del Codice visti, ove è espressamente prevista la
possibilità per gli Stati Membri, in presenza di ragioni di
carattere umanitario, di rilasciare un “Visto con validità
territoriale limitata” in deroga alle disposizioni dell’art. 5
Reg. 2009/810/CE, il quale consentirebbe al richiedente di viaggiare
in sicurezza verso il Paese cui intende chiedere protezione e di
farvi ingresso allo scopo, appunto, di presentare la relativa
richiesta.
La previsione di tale visto consentirebbe di anticipare
le tutele per i richiedenti la protezione internazionale nei Paesi di
origine e nei Paesi terzi, secondo i criteri individuati nelle
direttive europee che regolano la materia. In una prospettiva più
ampia la prerogativa andrebbe estesa ai c.d. profughi ambientali, ai
richiedenti protezione umanitaria e alle vittime di tratta. Questi
soggetti potrebbero affrontare il viaggio verso l’Europa in
sicurezza ed evitare di mettere la propria vita e tutte le proprie
speranze nelle mani dei trafficanti.
Quanto già sperimentato in
alcuni Paesi – nell’ambito di legislazioni nazionali che
prevedevano Procedure di Ingresso Protetto – consente di mettere in
luce quali potrebbero essere le criticità più evidenti
dell’utilizzo dello strumento in esame ma offre anche alcuni spunti
sulle possibili soluzioni.
La presentazione della richiesta di
tale visto nei Paesi di origine potrebbe essere resa impossibile agli
aventi diritto da parte delle autorità statali responsabili delle
persecuzioni o da parte di soggetti terzi che lo Stato non riesce a
controllare e dai quali non riesce a difendere i propri
cittadini.
Colui che fugge dal proprio Paese per il timore fondato
di essere perseguitato dovrebbe perciò più verosimilmente
presentare la relativa richiesta in uno Stato terzo, potenzialmente
in uno Stato limitrofo.
In uno stadio iniziale dunque, gli uffici
consolari addetti al rilascio di tali visti dovrebbero essere
potenziati negli Stati limitrofi ai territori di provenienza dei
richiedenti protezione, dove la situazione potrebbe divenire
ingestibile se, una volta diffusa la notizia di tale possibilità,
l’enorme afflusso di persone congestionasse l’attività delle
ambasciate esponendo lo stesso personale interno al pericolo di
ripercussioni.
Questa criticità potrebbe essere limitata
prevedendo più sedi consolari addette al rilascio del visto e,
all’interno di ogni sede, maggiore personale. Le procedure
dovrebbero essere snelle, limitandosi ad un esame sommario delle
situazioni e rimandando agli organi interni allo Stato di
destinazione una valutazione più puntuale sulla singola
condizione.
Una prospettiva di tal tipo ha speranza di funzionare
solo in un panorama europeo e se gli uffici consolari di tutti o di
una buona parte degli Stati membri impostassero il lavoro (almeno) in
questi termini.
D’altra parte, in attesa che sia modificata la
normativa europea rimane, in capo ai singoli Stati, la possibilità
di adottare soluzioni che possano intanto rendere più sicuro e
legale il viaggio verso l’Europa.
Infine, è necessario
menzionare un ulteriore strumento a disposizione degli Stati membri
dell’Unione europea, ovvero la Direttiva sulla Protezione
Temporanea (Direttiva 2001/55/CE del Consiglio). Tale normativa
prevede la possibilità per gli Stati membri di concedere
temporaneamente l’ingresso ed il soggiorno sul proprio territorio a
gruppi di persone provenienti da aree in estrema emergenza. La
normativa italiana ha recepito parzialmente le indicazioni della
Direttiva con l’art. 20 del D. Lgs. 286/98, che prevede il
riconoscimento di una “protezione temporanea” ed il rilascio di
un permesso di soggiorno provvisorio a persone giunte in numero
elevato ed in situazione di emergenza, permesso rinnovabile fino a
che l’emergenza perdura e non ostativo alla presentazione di una
domanda di asilo da parte dei singoli. Da rilevare che la norma in
questione è assai generale e la sua applicazione sinora è stata
subordinata all’emanazione, di volta in volta, di circolari
ministeriali per ogni caso specifico. Questo è successo, per citare
il caso più recente, in occasione dell’arrivo di un gran numero di
cittadini tunisini all’indomani delle “Primavere arabe” nel
2011.
stato delle cose nell’Unione europea e in Italia
la presenza di strumenti giuridici già potenzialmente applicabili,
l’Unione europea non ha ancora disposto procedure di ingresso
protetto, che potrebbero rappresentare, insieme ad un migliore
utilizzo del Codice Schengen, la più efficace soluzione al dramma
degli arrivi illegali.
Molteplici sono state le Comunicazioni
della Commissione e le Risoluzioni del Parlamento[11],
volte a richiedere l’applicazione, in particolare, delle PEP e del
resettlement
ma, a livello normativo, i risultati sono stati minimi.
Un primo
passo in avanti è costituito, senza dubbio, dal Programma Comune di
Reinsediamento dell’Unione europea, approvato il 29 marzo 2012 dal
Parlamento dopo tre anni di lavori della Commissione e del Consiglio.
Tale programma permetterà la gestione europea delle procedure di
resettlement
e consentirà inoltre agli Stati membri coinvolti di ottenere il
sostegno fornito dal Fondo Europeo per i rifugiati, ma ancora molto
vi è da fare: il programma infatti è stato sinora applicato solo in
via sperimentale e senza alcun obbligo per gli Stati Membri di
parteciparvi.
Il c.d. Programma di Stoccolma ha inoltre fornito
spunti per l’implementazione o la modifica delle normative oggi
vigenti in tema di immigrazione, con il fine di garantire una
migliore tutela dei diritti fondamentali.
Tali spunti sono stati
in parte recepiti dalle nuove Direttive Qualifiche[12]
e Procedure[13]
nonché dal nuovo Regolamento Frontex[14].
Nonostante
questo, le normative dei singoli Paesi sono assai lontane
dall’armonizzazione indicata nel programma: nel territorio
dell’Unione non esiste ancora, infatti, uno status uniforme di
beneficiario della protezione e neppure un mutuo riconoscimento dei
visti per soggiorno umanitario accordati nei singoli Stati e il
divario tra obiettivi dichiarati e politiche per la loro concreta
attuazione è divenuto sempre più ampio.
Quanto all’Italia –
nonostante l’esistenza di strumenti giuridici potenzialmente
efficaci, rispetto alle risposte strutturali volte a prevenire gli
arrivi illegali, e non già a rimediarvi – la situazione è
quantomai arretrata.
Il nostro Paese non è infatti dotato di
alcuna normativa che consenta di anticipare, all’estero, le tutele
per chi richiede una protezione: l’Italia non ha mai avuto una PEP,
né ha mai applicato il combinato disposto degli artt. 5 e 25 del
Codice Schengen.
Anche la partecipazione dell’Italia a programmi
di resettlement
è stata assai limitata: come poc’anzi esposto, infatti, nel 2011
soltanto 151 persone sono state reinsediate sul territorio italiano e
l’Italia non ha ad oggi aderito al programma di resettlement
dei profughi siriani promosso dall’UNHCR.
L’ingresso sicuro
dei richiedenti asilo in Italia è dunque sinora passato soltanto
attraverso operazioni emergenziali di evacuazione umanitaria.
In
particolare, l’Italia ha realizzato – tramite le proprie forze
armate – operazioni di evacuazione umanitaria nel 1990 a favore
degli albanesi, nel 1999 a favore dei kosovari (l’aviazione nei
trasferì 5.000 dalla Macedonia all’Italia) e nel 2011 a favore di
108 eritrei e etiopi che si trovavano in Libia: tale ultima
operazione umanitaria è di particolare interesse perché avvenuta
sulla base di accordi negoziati direttamente dall’Italia e dalla
Libia, su pressione del vescovo di Tripoli, e senza l’intermediazione
delle Nazioni Unite.
Quanto ai provvedimenti urgenti, nel 1990 fu
riconosciuta senza alcun passaggio intermedio la protezione
internazionale ad alcune centinaia di albanesi che avevano occupato
l’ambasciata italiana a Tirana; nel 1992, poi, fu adottata una
normativa ad hoc
(L. 390/1992) – peraltro assai poco utilizzata – che prevedeva
una procedura specifica per l’accesso alla protezione
internazionale da parte dei profughi provenienti dai Balcani (ma, in
ogni caso, non facilitava in alcun modo l’ingresso di costoro nel
territorio nazionale).
In tal senso, l’adozione, in Italia di un
visto a validità territoriale limitata per fini umanitari, come
disciplinato dal Codice Visti UE e dal Codice Frontiere Schengen,
potrebbe intanto avviare una prassi positiva e sicura e non
trascurabile dagli altri Stati membri e dalle istituzioni europee.
L’articolo è tratto da alcuni dei pareri redatti nell’ambito del
Progetto Lampedusa. L’attività di collazione e sintesi è a cura
di Caterina Bove, Francesca Cucchi, Chiara Pigato, Alice Ravinale.
L’elenco dei partecipanti al Progetto è disponibile sul sito della
Scuola Superiore dell’Avvocatura
(www.scuolasuperioreavvocatura.it/progetto-lampedusa).
Cfr. Rapporto OIM Fatal Journeys: Tracking Lives lost during
Migration, presentato a Ginevra il 29 settembre 2014.
Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale (rifusione).
Cfr., per tutti, quanto dichiarato dal Direttore del C.I.R.:
«I flussi di chi è costretto a fuggire dalle persecuzioni non
si possono fermare, per questo è indispensabile gestirli. La
possibilità di richiedere asilo in Italia e nell’Unione Europea a
oggi dipende dalla presenza fisica della persona nel territorio di
uno Stato Membro. Ma le leggi europee costringono i richiedenti asilo
a giungere in Europa in modo illegale, rischiando la vita» (C. Hein
intervistato da L. Eduati per l’Huffington Post, 3 ottobre 2013).
Corte Europea dei diritti dell’uomo, sent. M.S.S. c. Belgio e
Grecia (21/01/11, ric. 30696/09); Corte di giustizia UE, N.S. e altri
(21/12/11, procedimenti riuniti C-411/10 e C-493/10).
In Europa disponevano di Procedure di Ingresso Protetto l’Austria,
l’Olanda, la Danimarca e la Svizzera.
Si vedano i recenti casi di Edward Snowden e Julian Assange.
Sinora, la più grande operazione di evacuazione umanitaria è stata
quella con cui, nel 1999, circa 90.000 profughi kosovari sono stati
trasferiti dalla Macedonia a Stati disponibili all’accoglienza, che
hanno altresì contribuito fisicamente allo spostamento dei profughi
stessi. L’operazione fu organizzata dall’UNHCR con il supporto di
contingenti militari degli stessi Stati che accolsero i profughi.
Regolamento (CE) N. 562/2006 del Parlamento e del Consiglio, che
istituisce un codice comunitario relativo al regime di
attraversamento delle frontiere da parte delle persone.
Regolamento (CE) N. 810/2009 del Parlamento e del Consiglio, che
istituisce un codice comunitario dei visti.
Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale (rifusione).
Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del
riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale (rifusione).
Regolamento 656/2014/UE recante norme per la sorveglianza delle
frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa
coordinata dall’Agenzia Europea per la gestione della cooperazione
operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione
Europea, che ha sostituito il Regolamento 1168/2011/UE, che ha
modificato il Regolamento 2007/2004/UE istitutivo dell’Agenzia
Europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere
esterne degli Stati membri dell’Unione Europea.