Prigionieri della violenza
percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla
nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto
prodotto dalla risonanza mediatica.
di
Donatella Di Cesare (da
La lettura – Corriere della Sera)
Il
mondo è pieno di violenza. Subdola, strisciante, imprevedibile, ci
attende in agguato a ogni angolo, ci coglie di sorpresa a ogni
istante. La violenza è il sottofondo della nostra vita quotidiana,
il basso insistente e perturbante, il ritmo stonato e importuno, la
cadenza stridente e sconcertante. La violenza è all’ordine del
giorno. Non c’è forse parola che abbia un rilievo analogo nel
vocabolario dell’attualità. Ma è davvero un fenomeno così
esteso? Oppure parliamo di violenza in un senso troppo ampio e
impreciso? Certo è che il dilagare della violenza sembra lo
spettacolo che si ripete sotto gli occhi di tutti.
Eppure le
statistiche dicono che le cose non starebbero così. Nel complesso le
cifre dell’atto violento per eccellenza, l’omicidio, sono in calo
sia nel nostro Paese, sia in generale in tutti i continenti, anche
se, in base a un recente rapporto dell’Onu, restano differenze
considerevoli tra Sud e Nord del globo.
Se dovessimo prestar fede
alle cifre, potremmo quindi trarre un respiro di sollievo. Il
Novecento, inaugurato da grandi speranze e finito nella più buia
disperazione, segnato dalla mattanza delle guerre mondiali, dalla
brutalità delle dittature, dalle fabbriche dello sterminio, è
deflagrato in una esplosione di violenza senza precedenti. Dopo il
secolo breve e crudele, ci siamo ripromessi: «Mai più!». Questo
«mai più!» impronta il nostro atteggiamento verso ogni forma di
violenza, ci rende guardinghi e vigilanti. Ci rende, soprattutto,
estremamente sensibili.
Forse mai come oggi la violenza è stata
condannata moralmente, stigmatizzata politicamente, sanzionata
giuridicamente. Per noi rappresenta la sconfitta dell’etica,
l’attentato alla convivenza civile, la ferita alla dignità umana.
Ne siamo consapevoli. Non vogliamo dimenticarlo. E non esitiamo
perciò a spingere lo sguardo fin dentro quei territori dove — come
ci ha insegnato Walter Benjamin — il diritto mostra la sua ambigua
vicinanza alla violenza.
Perché ci sembra allora che la violenza
aumenti in modo preoccupante? E perché captiamo ovunque indizi gravi
e inequivocabili di una recrudescenza che ci tiene con il fiato
sospeso? L’oscena esibizione di una testa mozzata, i corpi sulla
spiaggia dei turisti inermi, il cadavere di un bambino che galleggia
nelle acque del Mediterraneo, il corpo di una donna ferita a morte —
quante visioni potremmo ancora richiamare alla memoria? Quante
inquietano le nostre notti e allarmano i nostri giorni?
La
violenza è lo spettacolo, drammatico e disumanizzante, a cui
assistiamo in quella seconda vita che quotidianamente viviamo nei
media, travolti dal flusso ininterrotto delle informazioni,
sopraffatti dal vortice delle immagini. Ci sentiamo spettatori
impotenti, paradossalmente ridotti alla passività, proprio mentre il
mondo segue il corso opposto a quello che ci eravamo figurati.
Se
percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla
nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto
prodotto dalla risonanza mediatica. Lo spettacolo della violenza, non
di rado esibita con disinvoltura, anche nella spietata
incontrollabilità della diretta, è parte integrante della nostra
esistenza. Virtuale e reale si confondono e, anzi, il virtuale
finisce per avere un effetto più perturbante del reale stesso. Sui
rischi di un uso spregiudicato delle foto che, nella loro presunta
immediatezza, «nascondono più di quel che svelino», ha avvertito
Susan Sontag.
Lo spettacolo della violenza ha il suo contrappeso
nella violenza spettacolarizzata. Si fa labile il confine tra i fatti
di cronaca e la trama del film dove l’eroico detective rischia la
vita per la sicurezza di tutti. Serie tv, fiction, videogiochi
mettono in scena un mondo suddiviso fra criminali e custodi
dell’ordine, fra assassini e astuti investigatori. Ma ansia,
timore, preoccupazione, svaniscono d’incanto nello scontato happy
end, in una preannunciata vittoria del bene sul male.
Questa
visione del mondo, dove la violenza viene ogni volta sconfitta,
diventa un modello fuorviante. Ci aspettiamo che la realtà abbia lo
stesso esito della finzione. Dato che non è così, siamo frustrati,
quasi risentiti. E anche questo, certo, aumenta il grado di violenza
percepita. È il caso allora di chiedersi se si tratta solo di una
percezione. Forse quella nostra frequente esclamazione «che
violenza!» non è casuale. La violenza è sulla bocca di tutti,
perché non ha mai smesso di percorrere sotterraneamente la storia. E
ora riemerge tra le crepe, assumendo le forme più diverse, subdole o
sfrontate, sottili o prepotenti. Malgrado le statistiche
rassicuranti, la riconosciamo subito, anche se non avremmo voluto
vederla più. Né avremmo voluto che fosse ancora la protagonista di
pagine di storia e di cronaca. Per questo quasi ci vergogniamo. E la
nostra cattiva coscienza vorrebbe indurci a negarla.
Ma perché la
violenza nelle sue forme attuali ci sconvolge, ci irrita, ci
imbarazza? E soprattutto: che cos’è la violenza? Perché è ben
riconoscibile, ma si lascia afferrare con difficoltà?
La violenza
non è un oggetto né una sostanza; ma non è neppure una qualità.
Nessun essere umano è, come tale, violento. Ad essere violenti sono
un atto, un gesto, una parola. La violenza alberga nella relazione,
esplode nei rapporti tra gli individui, resta nascosta nei legami
sociali, intacca perciò la convivenza.
Per Aristotele la violenza
è un movimento contro natura. Questa spiegazione ci soddisfa solo in
parte. E per noi, che veniamo dopo la modernità, la violenza appare
piuttosto relegata in quello stato di natura che la cultura dovrebbe
aver elevato e nobilitato per sempre. In breve, per noi la violenza è
opposta alla cultura. Quanto più la cultura prevale, tanto più la
violenza dovrebbe essere tacitata. Ma la storia ci fa riflettere e la
cronaca, nazionale e internazionale, ci smentisce.
Sarebbe comodo
identificare la violenza con la barbarie, vederla come una caduta
nello stadio primitivo e selvaggio, che l’umanità si è da tempo
lasciata alle spalle, o magari relegarla ai confini della ragione,
demonizzarla o tacciarla di follia. La violenza accompagna la storia
nelle sue fasi alterne e assume forme diverse, perché è guidata
dall’immaginazione e dall’inventiva. Soltanto gli esseri umani
hanno escogitato la tortura, la pena di morte, i massacri.
Quasi
impercettibile, la violenza attuale risponde ai comandi della
tecnica; è soft, corre rapida lungo i flussi dei dispositivi
elettronici e telematici, per condensarsi in quella sorta di
esperanto visivo costituito dalle immagini digitali. La nostra è
l’epoca delle immagini violente e della violenza delle
immagini.
Eppure si può mettere da parte l’iPad, spegnere la
tv. Quelle immagini crudeli e atroci di una strage, di un attentato,
di una guerra, sono insieme vicine e lontane. Potremmo
allontanarcene, come avviene al termine di un film. Ma ecco la novità
di oggi: la violenza passa dalla virtualità alla realtà, il suo
spettro ci insegue al di là dello spettacolo. Brutalmente siamo
stati strappati al nostro abituale ruolo di spettatori per entrare
d’improvviso nella scena concreta dell’aggressione, e per giunta
come vittime inermi della violenza.
Siamo disorientati, turbati,
increduli, delusi. Scopriamo di essere vulnerabili. E questa estrema,
irrimediabile vulnerabilità, aumenta via via che viene meno il
miraggio di un ordine del mondo. La violenza ci investe, scalfisce,
offende, incrina la nostra vita. È stata Judith Butler, dopo l’11
Settembre, a parlare di «vite precarie». Ed è interessante che
negli ultimi anni soprattutto le filosofe — da Butler ad Adriana
Cavarero — si siano soffermate su questo tema. La precarietà della
nostra vita ci fa avvertire un incremento della violenza. Ne
scorgiamo ovunque l’incombere, ne constatiamo il dilagare. Ed è
qui che il terrorismo porta la sua sfida. Il video di una
decapitazione non è solo la cruda violenza contro l’altro; è
anche un messaggio. Il «risentimento fondamentalista» — come lo
ha definito Slavoj Žižek — fa del jihadista dell’Isis non un
barbaro, bensì un postmoderno. Se brandisce una testa mozzata come
un trofeo, se giunge a farsi beffardamente un selfie , a scattarsi un
autoritratto celebrativo, è per dirci che il progresso non ha
eliminato la violenza, che la razionalizzazione tecnica non è in
grado di proteggere davvero nessuna vita.
La violenza temuta ci
rende più sensibili a quella subita, in una pericolosa escalation.
Tanto più che l’accelerazione del nostro tempo, questa vertigine
dell’illimitato, che ci dà straordinari poteri, ci rende
insofferenti al limite. Non sopportiamo alcun ostacolo, non
tolleriamo alcun impedimento. Reagiamo immediatamente. Come già
aveva osservato Hannah Arendt, non ci fermiamo a riflettere sui fini
e le ripercussioni del nostro agire. L’altro è solo il nostro
limite. Di qui le stragi familiari, gli infanticidi, gli stupri. Per
un nonnulla il vicino insospettabile può diventare un assassino, lo
studente modello può compiere una strage. La disponibilità delle
armi fa sì che la furia estatica dell’io possa facilmente tradursi
nell’annientamento dell’altro. Rabbia, rancore, rivalsa,
disperazione, esibizionismo, indifferenza, persino noia o
assuefazione, innumerevoli sono i motivi della violenza — nessuno
può spiegarla.
L’intelligenza tecnica ha aumentato a dismisura
i mezzi della distruttività inaugurando nuove forme di aggressione.
E, d’altra parte, la violenza meno eclatante, più invisibile,
della miseria, della fame, dell’immigrazione, delle catastrofi
ecologiche, resta il portato della globalizzazione. Più l’intensità
della violenza ci sconvolge, più siamo chiamati a riflettere, a
partire dalla vulnerabilità che ci accomuna.