Il coraggio di Jafar Panahi nel raccontare l’Iran di oggi
Teheran è il titolo della
nuova pellicola del regista persiano Jafar Panahi. Il regista de Il
palloncino bianco, Il
cerchio, Offside, Pardè e This is not a film – film
vincitori dei maggiori premi in campo cinematografico – ha sempre
raccontato le contraddizioni dell’Iran, denunciando la mancanza di
libertà civili e universali attraverso poetiche metafore concettuali
e visive.
non ha mai taciuto le proprie posizioni politiche ed è sceso in
piazza per protestare contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad: a
causa di quelle manifestazioni di protesta gli è stato intimato di
non girare più film, di non concedere interviste alla stampa
straniera e di non abbandonare il Paese. Se avesse violato queste
direttive sarebbe stato condannato a vent’anni di carcere. Grazie ad
una rete di amici e colleghi, Panahi ha continuato a lavorare e
torna nelle sale con Taxi
Teheran,
che si è aggiudicato l’Orso d’oro all’ultima edizione del festival
di Berlino. Girato clandestinamente come le sue ultime due opere, il
film è una docu-fiction in cui si compone un affresco della società
iraniana. Salgono su un taxi, guidato dallo stesso regista, persone
di tutti i tipi, età e professioni: donne, uomini, giovani, bambini,
professionisti, persone semplici, persone note e comuni. In una scena
significativa, il regista scende per pochi minuti dalla vettura per
andare a prendere la sua nipotina all’uscita di scuola: anche lei,
“armata” di videocamera, racconta di dover preparare una ricerca
sulle attività scolastiche, ma che la ricerca deve conformarsi
strettamente ai precetti dell’Islam ed evitare il “realismo nero”.
Di cosa si tratta? Eccolo spiegato dal mezzo cinematografico e dalla
creatività di Panahi: mentre lui e la bambina chiacchierano
all’interno del taxi, sullo sfondo viene inquadrato un ragazzino che
scava nella spazzatura e ruba del denaro a una coppia di giovani
sposi. Sul suo taxi sale, inoltre, Nasrin Sotudeh, l’avvocatessa e
attivista per i diritti umani, anche lei impossibilitata ad
esercitare la professione dal 2011. Tra i tanti temi trattati,
infatti, vi si trova anche quello che riguarda la condizione
femminile, un argomento caro all’autore; e poi artisti e persone
comuni che anelano alla libertà e, quando riconoscono il regista
alla guida del mezzo, si stupiscono e poi si mettono a ridere. Sì,
perchè la cifra che contraddistingue questo lavoro è l’ironia,
un’ironia graffiante che dimostra quanto la censura non possa nulla
contro la volontà. Una piccola cinepresa nascosta dell’abitacolo,
riprende e registra (quasi sempre ad inquadratura fissa e in primo
piano o mezzo busto) i volti e le espressioni delle persone: proprio
come uno specchio che riflette e rimanda parole, immagini, situazioni
che parlano dell’Iran contemporaneo. Il finale del racconto è
terribile ed è accompagnato da un testo che sostituisce i titoli di
coda: “Il ministero dell’orientamento islamico dà l’autorizzazione
per i titoli di coda dei film che vengono distribuiti. Con mio grande
rammarico quindi non ha titoli di coda. Esprimo la mia gratitudine a
tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa
collaborazione, questo film non avrebbe visto la luce”. Auguriamo a
Panahi di poter tornare alla luce della libertà dato che,
coraggiosamente, continua a vivere con la famiglia a Teheran e sotto
minaccia costante da parte del regime.