L’ultimo arrivato: il romanzo vincitore del premio Campiello
Negli anni Cinquanta a spostarsi dal Meridione al Nord in cerca di lavoro non erano solo uomini e donne pronti all’esperienza e alla vita, ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che mai si erano allontanati da casa. Il fenomeno dell’emigrazione infantile coinvolge migliaia di ragazzini che dicevano addio ai genitori, ai fratelli, e si trasferivano spesso per sempre nelle lontane metropoli. Questo romanzo è la storia di uno di loro,di un piccolo emigrante, Ninetto detto pelleossa, che abbandona la Sicilia e si reca a Milano. Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi». Ninetto parte e fugge, lascia dietro di sé una madre ridotta al silenzio e un padre che preferisce saperlo lontano ma con almeno un cenno di futuro. Quando arriva a destinazione, davanti agli occhi di un bambino che non capisce più se è «picciriddu» o adulto si spalanca il nuovo mondo, la scoperta della vita e di sé.
Queste alcuni brani della descrizione del romanzo L’ultimo arrivato, edito da Sellerio, di Marco Balzano, vincitore del premio Campiello 2015.
L’Associazione per i Diritti Umani ha intervistato l’autore che ci regalato queste sue parole.
Ringraziamo tantissimo Marco Balzano.
Quanto è importante, oggi, ricordare l’emigrazione interna italiana?
Moltissimo. La memoria va tenuta in vita per rapportarsi in maniera più efficace col presente. È utile per non interpretare tutto alla luce di allarmismi e demagogie, ma in maniera politicamente più incisiva per risolvere civilmente le grandi questioni e migliorare la nostra immagine rispetto ad atteggiamenti passati.
Perché la scelta di un bambino come protagonista della storia?
Perché l’emigrazione infantile e minorile in genere è stata una faccia dell’emigrazione di cui, nonostante il tema in genere sia stato molto battuto anche in letteratura per tutto il secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, si è parlato poco, per non dire niente.
Non si tratta di un racconto autobiografico: quali sono state le ricerche che hanno preceduto la stesura del libro?
No, non c’è nulla di autobiografico. Anzi, la difficoltà è stata togliersi completamente, non inciampare in questa storia. Ho prima studiato l’argomento dal punto di vista storico e sociologico, poi ho intervistato quei settantenni che sono emigrati da “picciriddi”. L’ho fatto senza prendere appunti, in modo che le loro parole si potessero liberamente confondere in me e dar vita a un personaggio di fantasia ma che prendesse spunto da vite vere. Volevo scrivere un storia, una narrazione, non un romanzo storico o sociologico: la storia di una vita.
Quali sono le riflessioni che il testo suggerisce ai ragazzi che lo leggeranno?
Il mondo dei giovani, ancor più di quello degli adulti, corre velocissimo. Tutto cambia in fretta, non si fa in tempo a desiderare qualcosa che subito ne esiste una versione più aggiornata. In questa rapidità le vite diverse dalle nostre sembrano sempre trapassato remoto. Non è così, invece: e la letteratura in genere ci connette con tempi, spazi ed esistenze in cui non eravamo presenti. Compie un’operazione di avvicinamento del diverso e dell’ignoto e permette di conoscerlo. Nel mio piccolo, penso che anche la storia di Ninetto, il mio protagonista, possa innescare questo processo di scoperta.
A chi dedica questo premio?
A mia figlia Caterina e a mia moglie Anna, un editor straordinario che ha vagliato e setacciato tutte le mie parole rendendole migliori. E poi, si sa, non è mai semplice convivere con uno scrittore!