Gender l’inganno perfetto
Così
una parola neutra diventa simbolo delle nostre paure:il saggio di
Michela MarzanoMelania
Mazzucco (da La Repubblica)
La parola gender divide. Ci sono
parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come
bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di
aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole
straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza
comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di
autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso
improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione
sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su
cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui
nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità:
no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del
rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire
impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo
parlando?
Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato
intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia)
diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e
psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per
sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere
quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e
non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e
della manipolazione delle idee non può non restare stregato e
insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita
intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E
a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche
politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni
che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato
inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento
sessuale o della propria identità di genere».
L’ultimo libro
di Michela Marzano, Papà,
mamma e gender , che esce
per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che
una concezione antropologica sulla formazione dell’identità
(sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”,
una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato
campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste
da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un
fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in
cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria
concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie
e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.
Ricordando
con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per
tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel
mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo
“didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque
gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è
semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema
della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo
(gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha
finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere —
estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.Papà,
mamma e gender è un libro
smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel
magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte
delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione
semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità
di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni
essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e
invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa:
«Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle
caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che
distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere”
invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e
culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti
o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo
spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio
o per una femmina ».
È insieme un libro di storia culturale e di
cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra
identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si
affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in
Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo
della famiglia », le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono
valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia
gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso
mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non
nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del
pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e
perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre.
L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che
siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel
mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che
ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe
a rimettere tutto in discussione».
Gli essenzialisti affibbiano a
chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di
relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere
transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa
temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle
coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia
lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello
stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come
una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette
uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale
visionario de La via della
Fame , il romanzo che lo
scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane
nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di
nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma
dell’amore… Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel
sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita».
Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ». Ecco, forse
abbiamo bisogno di una nuova parola. Lasciamo gender alle rivoluzioni
antropologiche del XX secolo: il riscatto dei lavoratori, delle
donne, dei neri, degli omosessuali. Le rivoluzioni sono
irreversibili, nel senso che possono essere sconfitte, ma non
revocate, e i principi che le accendono non tramontano. Troviamo
un’altra parola per «sognare il mondo da capo».IL
LIBRO Papà, mamma e gender, di Michela Marzano (Utet, pagg. 151 euro
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