Una lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia palestinese, memoir di Ghada Karmi
“Alla ricerca di Fatima: una storia palestinese” narra la vita di Ghada Karmi, medico palestinese, che trascorre l’infanzia in un sobborgo benestante di Gerusalemme con due fratelli, i genitori e il cane Rex, affidata alle cure della domestica Fatima. Quando la famiglia è costretta a fuggire in Inghilterra a causa delle crescenti violenze degli ebrei nei confronti della popolazione araba, Ghada deve imparare a convivere con la perdita progressiva e definitiva del paese in cui è nata, sostituito da Israele. L’impatto con l’Inghilterra non è troppo traumatico: la scelta di privilegiare l’identità inglese è naturale e all’inizio risolutiva. Quando, ormai laureata in medicina, sceglie di sposare un inglese, Ghada difende il suo matrimonio agli occhi della famiglia tradizionalista e giudicante, difendendo allo stesso tempo la fittizia identità inglese che ha attribuito a se stessa e rifiutando in toto quella araba. Ma ben presto le contraddizioni di una tale decisione esplodono in tutta la loro violenza: durante la guerra dei Sei giorni Ghada farà i conti con l’indifferenza, o addirittura l’ostilità, di tutti quelli che credeva vicini, marito incluso. Consapevole di non potersi più nascondere e convinta di dover cercare se stessa scavando nel passato, Ghada si getta anima e corpo nell’impegno politico, quasi cercasse un’assoluzione per aver trascurato la storia del suo popolo: negli anni Settanta inizia a lottare per far sentire la voce dimenticata degli esuli palestinesi, si reca nei campi…
lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia
palestinese, memoir di Ghada Karmi
Flavia Donati
La
vita di Ghada Karmi ha attraversato gli snodi drammatici della storia
del suo popolo ed è stata attraversata e travolta insieme alla sua
famiglia e alla sua comunità.
Parlo di una donna. Parlo di una
storica.
Historia, nel suo significato originale usato da Erodoto,
vuole dire “conoscenza”.
Ghada Karmi ha attraversato il
trauma della catastrofe del suo popolo, superando, come mostrerò, il
diniego transgenerazionale ed arrivando con la sua scrittura a
rendere testimonianza dell’orrore che è accaduto “là e
allora”.
I disastri causati dall’uomo e dalla mano dell’uomo,
le guerre, le persecuzioni politiche ed etniche, mirano
all’annichilimento dell’esistenza sociale e individuale dell’essere
umano. Questa è la de-umanizzazione cui il lavoro paziente dello
storico si oppone. Lo storico integra le esperienze traumatiche in un
atto narrativo.
Questo ha fatto, questa donna-studiosa, Ghada, di
cui vi parlerò.
Il mio scriverne è un rendergliene grazia.
Lo
storico Walid Khalidi ha dovuto scrivere “All That Remains: The
Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948”,
pubblicato nel 1992, per salvare alla memoria ciò che il sionismo e,
poi, lo stato israeliano hanno rubato (case, terre, acqua, alberi,
ulivi millenari) hanno distrutto (vite umane, villaggi popolati e
inermi) hanno espulso (centinaia di migliaia di abitanti resi
profughi o esuli come Ghada) per costruirci sopra cancellandone i
nomi arabi per azzerarne anche il ricordo. Per negarne l’
esistenza.
La vita di Ghada inizia come una bimbetta riflessiva,
con tanti legami affettivi ben radicati nella comunità di
appartenenza, con una nutrice che è per lei una vera àncora di
accoglienza e sicurezza e con un cane, Rex, compagno di giochi e di
intesa. Parlerò della sua famiglia e dell’intreccio con le
complessità di lutti e della loro impossibile elaborazione.
Questa
bimbetta un giorno perde tutto. Messa di fretta in un taxi, lasciando
Gerusalemme senza il tempo per capire e per un vero addio, vede per
l’ ultima volta, una mattina all’alba, Fatima, la nutrice e Rex;
li vede figure sempre più piccole in lontananza finché si perdono.
Non le vedrà mai più e non saprà nemmeno mai quale fu il loro
destino (pag. 113). Era l’ aprile del 1948. La nakba, la
catastrofe. Confusi, storditi, ammassati, annegati nel dolore e nella
paura, prima tappa Damasco, poi Londra.
Il libro intreccia la
grande storia e la storia personale. Ghada Karmi è medico e storica
accurata, dallo sguardo ampio ed è mossa da una dolorosa sincerità
personale sui suoi percorsi, ingenuità, errori, illusioni,
fallimenti e ritrovamenti della strada perduta.
La cornice della
grande storia: La Dichiarazione di Balfour novembre 1917, in merito
alla spartizione dell’ impero ottomano, venne mandata dall’allora
Ministro degli Esteri inglese Balfour a Lord Rothschild inteso come
rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del
movimento sionista. In questo documento ufficiale il governo inglese
guardava con favore alla creazione di un focolaio ebraico in
Palestina. Dice Ghada Karmi: ”con quella dichiarazione il governo
inglese aveva promesso ad un popolo la terra di un altro, benché non
potesse rivendicare alcun diritto di proprietà su quella terra”
(pag. 71). La Dichiarazione di Balfour fu inserita nel trattato di
Sevres del 1920 che stabiliva la fine delle ostilità con la Turchia
e assegnava la Palestina al Regno Unito, successivo titolare del
Mandato della Palestina. Nei primi capitoli del libro si seguono le
vicende prima della trasformazione di Gerusalemme nel XIX secolo:
“quando si stabilirono le prime missioni cristiane…in appena
cinquant’anni costruirono centinaia di chiese, scuole, ospedali…”
(pag. 31) . La ferrea occupazione del mandato inglese, attivamente
contrastata da movimenti di resistenza palestinese “dal 1936 al
1939 la protesta palestinese contro la linea politica seguita dalle
autorità del mandato britannico che governavano il paese era
inarrestabile…ma i capi della rivolta non riuscirono ad accordarsi
su una strategia comune per sconfiggere l’ avanzata ebraica né
tantomeno gli inglesi…” (pag. 10-11) “i due partiti pro
Husseini e pro Nashashibi, ai ferri corti, stavano conducendo la
resistenza palestinese alla disfatta, lasciando il campo agli ebrei
immigrati, ogni giorno più decisi a prendere il potere” (pag. 44).
La progressiva migrazione ebraica in Palestina: “Prima dell’
inizio dell’immigrazione ebraica in Palestina nel 1880 la comunità
(ebraica ndr) contava circa 3.000 persone, su un totale di 350.000
abitanti nel paese” (pag. 37). Quella piccola comunità che Ghada
Karmi chiama “i nostri ebrei” era indistinguibile dagli arabi,
perché ne parlava la lingua ed era fisicamente indistinguibile. Ma
si ingrossò il fiume della migrazione ebraica sotto gli occhi dell’
occupazione militare del mandato inglese. Ebrei poveri degli anni
’20-’30…ma anche ebrei benestanti “ricevevano sostanziosi
aiuti economici dal governo britannico” (pag. 13) diventavano
sempre più possidenti. Ghada dice: “lasciati a se stessi, i popoli
si mescolano. Matrimoni misti, amicizie tra i vicini di casa …..”
( pag. 45)…..
Ma i sionisti avevano un altro piano. Il JNF (il
Fondo Nazionale Ebraico) fondato nel 1901 al congresso sionista di
Basilea, mappò la terrà e pianificò la sua espropriazione. Le
strutture politiche e militari sioniste, inizialmente addestrate ed
armate dall’esercito inglese, progressivamente diventarono il
braccio armato (Haganah, esercito clandestino, Irgun, Banda Stern)
contro la popolazione palestinese e contro l’esercito inglese che
divenne obbiettivo di attacchi sanguinari (ad es King David Hotel
quartier generale del governo britannico in Palestina fu devastato da
una bomba nel luglio 1946 (pag. 54), o per es la Goldsmith House sede
degli ufficiali britannici (pag. 61). Dice Ghada Karmi: “Le
autorità inglesi sembravano sopraffatte dalla ferocia delle
aggressioni degli ebrei”.
La
popolazione palestinese, la comunità intorno a Ghada, la sua
famiglia divennero sempre più terrorizzate dagli attacchi delle
milizie sioniste (ai mezzi pubblici ad Haifa, alla folla alla Porta
di Damasco, ai cinema, ai caffè, agli Hotel ritenuti sedi delle
deboli organizzazioni palestinesi di resistenza, divise e malamente
organizzate e dirette, il massacro di Deir Yassin il 9 aprile 1948…)
fino a quel giorno di aprile del 1948 quando per non morire,
lasciarono la loro terra.
Lascio alle pagine di Ghada la storia
della fine del Mandato britannico e la Dichiarazione Onu e il dramma
della popolazione palestinese, di quella che rimase nel territorio e
di quella che diventò esule, 800.000 donne, uomini e bambini e dei
531 villaggi distrutti.
Io
mi devo occupare della storia piccola, della storia personale che si
dipana in questa grande storia. Vorrei proporvi 4 aree di lettura di
questa storia per entrare nei suoi aspetti psicologici, per come io
ho cercato di comprenderli. Spero che Ghada senta il mio rispetto per
lei e per l’onestà del suo racconto, lo senta anche se devo
concentrare in pochi paragrafi l’ entrare in grandi complessità e
in intense emozionalità e ciò lo sento rischioso.
di fragilità pre-nakba
2) Il trauma ed i suoi fattori
PRE-disponenti l’impossibilità di una elaborazione compiuta
3)
I tentativi difensivi (per es: pseudo-integrazione
post-migratoria)
4) La riconnessione con la propria storia
La
bambina Ghada viveva nella sua famiglia con il papà, la mamma, una
sorella nata nel ‘32 ed un fratello nato nel ’36 più grandi di
lei nata nel nov ’39 . Immersa, radicata in una comunità ricca di
scambi umani e di attività commerciali.
Ghada guarda alla sua
storia da adulta e la pietà per i dolori della vita dei suoi
genitori le permette di ricordare con tenerezza aspetti della
dinamica intra-famigliare che avrebbero potuto essere ricordati con
venature critiche che si permette solo in alcune pagine, dimostrando
la sua profonda consapevolezza e sincerità.
Ma
non solo questo: questo sguardo pietoso è un primo movimento di
elaborazione del lutto che le permette di attingere alla memoria sia
della sua storia individuale sia alla grande storia.
Ghada chiede
a Fatima “dimmi cosa succede?” (pag. 107) quando l’angoscia
nella comunità cresce. Non lo chiede alla madre, non lo chiede al
padre. Per lei l’àncora è Fatima. La madre è una donna volitiva
e intelligente ma sembra distratta dalla sua intensa necessità di
interazioni sociali che inseriscono la famiglia in un tessuto
affettivo sociale stretto ma lasciano Ghada un po’ solitaria. Ghada
dice: “io non venivo notata da nessuno, mi vedevo pelle ed ossa, mi
sentivo brutta ed ero gelosa marcia” dei cuginetti coccolati dalla
madre e dei maschi che avevano diritto a trattamenti speciali (pag.
22)…“dai bambini, come dagli adulti ci si aspettava che se la
cavassero da soli”….”la vita senza Rex e Fatima era
impensabile” (pag. 76).
Queste frasi danno l’ immagine di una
bambina che non trovava sufficiente accoglimento e attenzione e che
non si sentiva vista dagli occhi della madre. E quindi poteva trovare
difficoltà nella formazione dell’immagine di sé. Un vissuto di
svalutazione, di insufficiente rispecchiamento e rassicurante
conferma che può rendere il bambino più esposto a
inquietudini-insicurezza-autocriticità nel suo senso di sé stesso e
all’ ansia di rifiuto nella relazione con il mondo esterno.
L’ancoraggio a Fatima è di tipo affettivo-protettivo, una grande
tenerezza calda. Fatima era una donna saggia ma nella società
palestinese del tempo la posizione di Fatima era svalutata: “Anche
se ero piccola avevo già assimilato la tripartizione usuale della
società palestinese: in fondo alla scala c’era la gente di
campagna, poi i proprietari terrieri e in cima gli abitanti delle
città” (pag. 17)… “fin dall’ inizio considerai Fatima come
mia madre…sapevo che lei non era la mia vera madre ma nutrivo un
affetto così profondo che i miei fratelli mi canzonavano: Non sei
mica nostra sorella…Ti abbiamo trovata in giardino…i tuoi
genitori sono contadini come Fatima…prima o poi ti rimandiamo da
loro…”… “piangevo disperata”…”mia madre li
rimproverava”…”Ma il mio strazio era solo in parte dovuto al
fatto di non voler essere considerata una reietta nella mia stessa
famiglia. In maggior misura mi turbava l’ idea di essere associata
ai contadini”…( pag. 16). Quindi già da allora il modellamento
sull’immagine della figura femminile di riferimento era complessa.
Complessa la formazione dell’ immagine di sé. Da una parte Ghada
trovava la sicurezza, pace, tenerezza e accoglienza incondizionata
con Fatima, dall’altra era in conflitto con quell’ immagine di
riferimento da introiettare in quanto svalutata e che l’avrebbe
messa fuori dalla famiglia.
Il rapporto con il padre è tenero.
Siede sulle sue ginocchia quando la madre esce e lui legge, gli parla
anche se lui non si sa quanto ascolti. E’ un uomo responsabile con
aspirazioni intellettuali e lavora all’interno dell’ entourage
inglese cosa che gli crea forti imbarazzi per la sua forte
collocazione leale dentro la sua comunità. Una complicazione che lo
accompagnerà anche dopo la migrazione in Inghilterra perché troverà
lavoro nella divisione araba della BBC. Ghada dice: “i padri hanno
un’importanza cruciale nella nostra cultura. Rappresentano la
principale figura di riferimento, l’ autorità, sono gli artefici
della reputazione della famiglia, l’ unico suo mezzo di
sostentamento economico e la base della sua identità” (pag. 76).
Ma il padre, lui stesso vittima della grande storia che si abbatte
sulla sua terra dice: “non andremo da nessuna parte e nessuno farà
nulla ai miei libri” (pag. 83). E quindi che cosa succede alla
bambina Ghada verso questa autorità che doveva essere, per lei
ancora piccola, guida autorevole nella lettura della realtà ed
efficace protezione consapevole? Lo si perdona in quanto vittima ma:
che ferita lascia? Quanto traumatica è la perdita improvvisa
dell’aura di onnipotenza che i nostri genitori dovrebbero perdere
un po’ alla volta nel corso della nostra adolescenza mentre ci
attrezziamo a navigare da soli la realtà?
Queste considerazioni
ci aiutano a capire meglio il senso di fragilità e di dubbio
identitario che sarà parte della fase successiva,
post-migratoria.
Sia la mamma che il papà di Ghada hanno
difficoltà a parlare delle esperienze e di ciò che succede a loro e
nei loro figli sia prima della nakba che negli anni del
post-migrazione. Ghada ne parla con stupore, con tristezza, a volte
con dolore arrabbiato. “nessuno dei due sembrava interessato alle
nostre vite” (pag. 205) “non riesco a perdonare i miei genitori
per averci gettato con tanta noncuranza in simili sabbie mobili
culturali e politiche” (pag. 191) “lacrime di papà per che cosa?
Era impossibile dirlo perché papà non parlava mai dei suoi
sentimenti” (pag. 144). Noi lettori possiamo cercare di immaginare
lo stato di angoscia continua e sotterranea nel quale i genitori
vivevano intuendo, forse non a livello conscio, che il loro mondo era
minacciato e sarebbe stato distrutto. Forse non erano in grado di
ascoltare perché non potevano dare risposte. Non potevano
avvicinarsi al lutto che stavano per vivere, stavano vivendo, avevano
vissuto e avrebbero continuato a vivere. Ma se guardiamo l’esperienza
dalla parte di Ghada possiamo sentirci vicini alla sua esperienza
interiore. I bambini hanno bisogno di essere aiutati a mettere in
parole le loro esperienze perché vengano accolte senza reprimerne le
emozioni, anzi per aiutarli a capirle e collegarle, per validare le
loro risorse per poter affrontare le sfide, per non vergognarsi della
paura, per non dover far finta di…. e per consolidare il senso
della propria identità. Gli attacchi di panico di cui Ghada ci
racconta soffrirà a Londra per molti anni (pag. 186) iniziati al
museo delle cere di Madame Tussauds (forse non per caso: tutti come
morti, come un cimitero) rimandano forse a questa scissione tra forti
emozioni e un insufficiente tentativo di contenimento negli anni
formativi attraverso l’ascolto-rassicurazione attraverso la
sintonizzazione dell’ adulto-affidabilità della parola dell’
altro.
Gli impatti forti della nostra vita vanno a mettere in
evidenza le nostre aree deboli e poi, come Ghada arriverà a fare nel
suo percorso, se riusciamo a riconnetterci con le nostre risorse e le
correnti dinamiche autentiche della nostra identità abbiamo
l’opportunità di riparare, di occuparci in modo curativo di quelle
aree friabili.
Il trauma: Palestina Damasco Londra
Perdita del mondo che è la
sua vita. Affetti, legami identitari, comunità di riferimento.
Odori. Suoni. Paesaggi. Fisionomie. Arriva l’ Aprile 1948.
Prima
il montare di una paura che impregna tutti. I genitori erano
terrorizzati (pag. 104) i bambini non possono contare su alcuna
rassicurazione, conforto, spiegazione su ciò che sta avvenendo e
potrà essere di loro: “nemmeno il tempo di dire addio alla nostra
casa, al nostro paese a tutto ciò che avevamo amato un tempo”
(pag. 113). La fuga a Damasco dove c’erano i nonni.
C’è un
dolore che tutto pervade ma un meccanismo difensivo, la negazione,
che illusoriamente protegge dal dolore ma ne complica enormemente la
possibilità di elaborarlo senza eccessive scissioni che invece
congelano parti del proprio mondo interno con conseguenze complesse
emotive-cognitive-relazionali: “dopo il nostro arrivo a Damasco,
nessuno accennò più alla vita di prima. I nostri genitori non
parlavano più né di Fatima….nè della casa o di Gerusalemme. Mi
sembrava di essere l’ unica a serbarne il ricordo…così stordita
e confusa decisi di seguire il loro esempio e tenni per me la
confusione. La mia devozione a Fatima, alla nostra casa e alla mia
infanzia divennero una questione privata, un segreto da custodire e
proteggere.” (pag. 126)…”i ricordi congelati nel tempo” (pag.
161).
“Scappare è fare il gioco degli ebrei, rimanere è
esporre i figli alla morte” (pag. 82). Fuggiti lasciando gli
anziani indietro per salvare i bambini: come si può elaborare o
convivere con una tale colpa? Come affiorerà o si cercherà di non
farla affiorare?
Poi, dopo varie traversie, e “una temporanea
follia dei genitori” (pag. 145) la famiglia arriva a Londra. A
Londra la famiglia Karmi tiene una stretta routine araba; la
infelicissima mamma entra in una vera fase depressiva (pag. 167):
isolata, rifiuta per anni di attrezzare con il riscaldamento la casa
gelida e umida; rifiuta di considerare quella casa, quel luogo come
destinazione permanente, definitivo, finale. Non imparerà mai
l’inglese, e non stringerà mai amicizie con gli inglesi. Molto
diversamente da come aveva fatto in Palestina dove le porte di casa
erano sempre aperte e i vicini di casa erano amici al di là di
appartenenze e caratteri. Mai mise piede nella scuola dei figli (pag.
179) e spegneva la musica classica che sempre aveva allietato la casa
in Palestina (pag. 183).
Come si può elaborare una perdita così
globale e drammatica? Il fallimento della migrazione nella
generazione adulta si appoggia su una prevalenze di un dolore che
eccede la proprie capacità di sopportarlo, sulla negazione come
mezzo difensivo
prevalente, sulla natura obbligata dell’esilio,
sulla globalità della perdita di ciò che ancora esiste ma è stato
devastato e rubato. Gli invasori vivono nella loro casa. Il presente
viene congelato perché non è più il passato e perché non deve
diventare quel futuro. Congelamento dell’oggetto perduto insieme a
ciò che di noi si esprimeva nella relazione con esso.
Idealizzazione
del mondo perduto-estraniazione e denigrazione del mondo presente
sono oscillazioni che rendono difficile la vita anche ai ragazzi che
invece escono da casa, vanno a scuola, devono imparare la lingua e
devono negoziare il loro inserimento in una nuova cultura, con nuovi
valori, abitudini, validazioni.
Infatti come scrive Faimberg
(2006) una negazione trasmessa di generazione in generazione
impedisce il più delle volte di elaborare il lutto delle varie
catastrofi del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa
quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intra-soggettivo e
inter-soggettivo dove ciò che è negato ritorna nella forma di una
mutilazione, in senso stretto ed in senso lato. Ma non sono solo i
bambini ad essere “mutilati” della possibilità di affidarsi ai
genitori: i genitori sono a loro volta “mutilati” non solo della
loro patria ma della possibilità di essere per i loro figli punti di
riferimento forti. Il terrore li fissa nella negazione. Gli adulti,
si sa, sono meno plastici dei bambini, incistano il trauma in una
cripta irrevocabilmente.
Quali operazioni mentali Ghada deve fare
per poter continuare a vivere?
La pseudo-integrazione post-migratoria
Non può accettare la
denigrazione del presente se vuole vivere, congela ricordi e perdite
e gli elementi fondanti la sua identità culturale. “iniziai a
cancellare il passato come se non fosse mai esistito…mi chiedo se i
nostri genitori stessero cercando di favorire quella cancellazione un
po’ per non rivivere il dolore e il trauma e un po’ forse, per
una ragione più oscura e diversa. Magari a spingerli era la vergogna
per aver disertato la madre patria, per averla lasciata, indifesa,
nelle mani dell’invasore” (pag. 193). Verso chi era stato
abbandonato, lasciato là. Inizia per Ghada un lungo processo di
adattamento che potremmo chiamare camaleontico, facilitato dalla sua
frequenza in una scuola cattolica dove le suore la trattavano con una
certa dolcezza, un gusto di accoglienza femminile quasi
un’associazione a Fatima. La sua migliore amica è Leslie e viene
ben accolta dalla sua famiglia ebrea.
“Mi ero fatta l’ idea
che tutto quello che era arabo…era mediocre e non meritava il mio
interesse” (pag. 208). La svalorizzazione è tra i sintomi del
lutto patologico. “avevo fatto mio il risentimento verso gli
immigrati, come se io e la mia famiglia appartenessimo alla
popolazione indigena…secondo lo stesso principio volevo confondermi
con gli inglesi, imitare il loro comportamento, il loro modo di
vivere….non mi sfiorò mai il pensiero di essere io stessa oggetto
di quel disprezzo che gli inglesi provavano per i miei compagni
immigrati e nemmeno che, in quanto palestinese, era proprio a loro
che dovevo la perdita recente del mio paese…(208-209).
Qui va
messo in luce il doppio livello della scissione e della negazione:
una negazione della perdita da parte dei genitori e una negazione
della storia del popolo palestinese da parte degli inglesi, nei media
e nell’insegnamento scolastico, che volevano dimenticare il loro
ruolo pre-nakba e stavano sempre di più promuovendo, per
associazione coloniale, Israele a paese amico dimenticando tutta la
storia del mandato britannico in Palestina finita con il loro sangue
oltre a quello palestinese. Infatti i due momenti cruciali di rottura
del suo percorso “adattativo” dal ’49 al ‘67 sono legati alla
guerra per lo stretto di Suez del ottobre-novembre 1956 e alla
cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967. Queste crisi internazionali
vedono emergere nell’ambiente sociale e scolastico intorno a Ghada
forti spinte di alleanza tra gli ebrei inglesi e Israele in aperta
ostilità anti-araba e contro l’Egitto di Nasser, e una chiara
collocazione inglese in alleanza anti-araba insieme agli altri stati
post e neo-coloniali. “gli ebrei inglesi iniziarono con il ‘67 il
loro coming out per appartenenza religiosa e per i loro legami con
Israele (pag. 351). Ghada subisce penose esperienze di bullismo a
scuola (pag. 262) e raffreddamenti nelle sue relazioni sociali: si
sente dire “ti sembra giusto quello che ha fatto il vostro Nasser?”
(pag. 252). Scrive: “Mi ci sarebbero voluti un altro decennio e
un’altra crisi profondissima perché quell’edifico alla fine
crollasse. Ma, senza che lo sapessi, a seguito della guerra di Suez,
le prime crepe si erano già aperte.” (pag. 268).
Ghada per un
po’ non aveva avuto scampo: aveva cercato di inserirsi per
assimilazione. Ha la cittadinanza nel ’52. Vive come se avesse una
doppia vita. Si accentua un distacco affettivo dai suoi genitori che
vivono in un mondo a parte, soprattutto la madre. Ad un certo punto
viene accolta con affetto e calore dalla famiglia di John che la
vuole sposare. Ghada tentenna perché “sa” che John per lei è la
casa inglese che le dà un senso di appartenenza ma, credo, sentisse
la voragine che sottostava al suo rapporto. Quel senso di
appartenenza si basava sulla negazione della sua storia – di cui non
si parlava – della sua identità araba originaria e delle ragioni
storiche della sua forzata migrazione delle quali non si parlava
(pag. 332).
Ghada sceglie inconsapevolmente come data per le nozze
il 15 maggio: la data della nakba. La data della perdita della sua
terra ora diventa anche la data del distacco dalla sua famiglia che
non riesce ad accettare la sua scelta. Forse il sovrapporre le date è
nella scia della negazione. O all’ opposto accendere i riflettori
sulla storia.
Ma la grande storia entra di nuovo nella sua vita
questa volta ridandole una nuova possibilità di elaborazione e di
integrazione personale. È la guerra delle 3 ore…chiamata dei 6
giorni con la disfatta araba e il trionfo di Israele. Nel 1967. Si
afferma nel mondo la saldatura tra i colonialismi in funzione
anti-araba con la possibilità di oscurare la responsabilità europea
nell’olocausto passando agli arabi il ruolo di minaccia agli
ebrei.
Momento cruciale con John che le dice: “non posso non
ammirare Israele” . Il matrimonio viene travolto ma Ghada fa
soprattutto precipitare dentro di sé una crisi profonda, difficile:
“adesso mi sentivo doppiamente sola. Era come se quella settimana
di guerra mi avesse smascherata. Mi chiedevo chi fossi in realtà”,
(pag. 344). Pagine dolorose, turbolente ma che indicano quel lavoro
di riconnessione interna alla realtà della propria storia e ai
propri legami culturali sotterrati.
Le aree di ambiguità che
dobbiamo mantenere – per permettere un adattamento che viene
associato alla sopravvivenza, scindendo e sopprimendo aree importanti
della nostra identità – è proporzionale alla fragilità della
nostra identità, alla quota di vergogna e di autodenigrazione che la
minaccia, alle dinamiche collusive dell’ambiente circostante (nella
negazione, nella denigrazione, nell’ amnesia) alla violenza
dell’esclusione sociale e della punizione in caso di manifestata
diversità o critica.
L’integrazione interna (eredità,
appartenenza, modelli identificatori, transgenerazionali, la nostra
individuazione=creazione della nostra originalità nella fase
infantile, i suoi dilemmi…) è l’ unico presupposto per
un‘integrazione esterna che non sia basata sulla perdita di parti
importanti di noi stessi e su un camaleontismo superficiale.
Israele
riuscì attraverso un’articolata e abilissima strategia
politico-mediatica a trasformare l’immagine del popolo palestinese,
la vittima che era stato espulsa dalla sua terra, nell’immagine di
una presenza senza diritti, intrusoria, aggressiva, che andava
annullata e distrutta in quanto minacciosa. Gli stati arabi, divisi,
con poteri autocratici miopi e disorganizzati, non ebbero mai, dopo
Nasser, alcun ruolo nello scacchiere geo-politico dell’area
medio-orientale e mediterranea. Ora in Israele con la legge del marzo
2011 lo Stato toglie i fondi statali a quelle istituzioni che
commemorino il giorno della fondazione dello stato di Israele come
giorno di un loro lutto. Parlare della nakba è proibito a scuola.
Cioè i migliaia di palestinesi che sono rimasti in quello che è
diventato lo Stato ebraico, non possono ricordare il giorno in cui
hanno perso la loro coesione comunitaria e migliaia di loro amici e
parenti sono diventati profughi permanenti, alcuni esuli sparsi per
il mondo (come la famiglia di Ghada), molti altri, milioni di altri
ora vivono ancora in campi profughi senza diritti e senza identità
nazionale. Il vero “negazionismo” impedisce alla vittime di
essere riconosciute: Ghada scrive “compresi amareggiata che non
avevo solamente perso la mia patria ma anche il diritto di piangerla
e di volerne a qualcuno perché se ne era appropriato” (pag. 354).
4)
Riconnessione alla propria storia
Ghada inizia un’attività
politica che non è più terminata a tutt’oggi. E da medico diventa
una storica e una studiosa. Questa parte della sua vita ci è più
nota. La porta ad un certo punto a pensare di voler vivere e lavorare
come medico in Siria, rientrando in un mondo culturale arabo.
Sperimenta come sa chi vive, attraversa e studia la complessità del
processo migratorio, che l’ individuo diventa un individuo
originale che deve accettare di non collocarsi perfettamente né
nella cultura di origine né in quella di arrivo. E lei è mossa da
necessità di restituire alla storia la storia.
La enorme fatica
elaborativa che ha fatto sul piano personale dà le radici ad un suo
pensiero coraggioso ed originale, una sua proposta strategica che è
stata espressa nel suo libro “Sposata ad un Altro Uomo” (così fu
descritta la Palestina dai due inviati dal primo congresso sionista
del 1897 di Basilea, cioè che era una terra già abitata,
rivendicata da una popolazione nativa arabo-palestinese della quale
era madrepatria) che Ghada venne a presentare in Italia 4 anni fa.
Ghada dice: “Sono consapevole che l’ipotesi di uno Stato unico
non sia un argomento del quale scrivere facilmente. Si finisce
immediatamente per far parte di una minoranza marginale e si è
oggetto di accuse di utopismo, antisemitismo, e persino di
tradimento. Si tratta di pregiudizi per evitare di pensare idee in
contrasto con quelle divenute familiari, convenzionali, o che servono
interessi costituiti. Al contrario, l’ipotesi di uno Stato unico,
laico e democratico nella Palestina storica, è da affrontare con un
dibattito onesto perché, come spero, di dimostrare è l’unica
strada possibile tanto per i palestinesi quanto per gli
israeliani”.
Grazie Ghada e grazie Fatima che, credo, Ghada
abbia ritrovato dentro di sé come un nucleo caldo e amorevole grazie
al quale è riuscita, nonostante la sua terra sia stata distrutta e
lei ripetutamente ferita, a portare al suo popolo un messaggio
costruttivo e di speranza.
…… Cesare Pavese “ Un paese ci
vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol
dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella
terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad
aspettarti”
“La Luna e i Falò” Einaudi 1950
Flavia
Donati , psichiatra e psicoanalista SPI-IPA
Roma, 5 maggio
2014
Relazione richiesta da ISM-Italia e presentata in occasione
del tour in Italia del maggio 2014 per la presentazione del libro
memoir di Ghada Karmi “Alla Ricerca di Fatima – Una Storia
Palestinese”, Atmosphere Libri 2013.