Noi terroristi, storie vere dal Nord Africa a Charlie Hebdo
Lo scorso 14 gennaio, presso I.S.P.I (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) di Milano si è tenuto il convegno dal titolo “Noi terroristi. Storie vere dal Nord Africa a Charlie Hebdo” che riprende il titolo anche del saggio di Mario Giro, sottosegretario agli Affari Esteri, libro edito da Guerini e associati.
Parigi, 25 luglio 1995: esplode una bomba nella stazione RER di Saint Michel, causando 8 morti e 117 feriti. Parigi 7 gennaio 2015: i fratelli Saì’d e Chérif Kouachi assaltano la redazione di Charlie Hebdo e compiono una strage. Vent’anni di differenza tra i due fatti di sangue. Stessa la matrice, quella del jihadismo, il terrorismo islamico. Simili le storie: giovani perduti, finiti nel gorgo della delinquenza e alla fine corrotti dai “cattivi maestri” del terrore. Ma anche – questo è il nodo – un filo che lega le stesse persone: c’è un contatto tra i due attentati, medesimi gli ambienti, stesse le cellule. Questo è un libro di storie di ragazzi perduti che a un certo punto decidono di farsi terroristi. Storie diverse e uguali, forse banali. Tra tutte, al centro, la storia principale, quella di HM, uno dei primi, quando al-Qaeda nemmeno esisteva. HM è un archetipo, un attentatore alle prime armi. La sua vicenda si intreccia con quelle di tanti altri giovani e giunge fino ad oggi, fino a Charlie Hebdo. Il tragitto di HM è stato pubblicato nel 2005 (nel libro intitolato “Gli occhi di un bambino ebreo”) ma torna oggi di estrema attualità.
L’Associazione per i Diritti umani ha seguito il convegno al quale hanno partecipato, oltre al sottosegretario: Shady Hamadi, giornalista e scrittore, Sumaya Abdel Qader, ricercatrice e blogger, Alberto Negri, giornalista de Il Sole24Ore e Milena Santerini, Docente presso l’Università Cattolica di Milano e Parlamentare.
Ecco per voi il report del convegno.
Mario Giro: Il libro nasce quando mi accorgo che i ragazzi che hanno compiuto gli attentati appartengono alla stessa filiera di quelli che hanno compiuto gli attentati dal 1995, in Francia, per cui è un libro sui nostri ragazzi e non si tratta di un testo di geopolitica.
Dobbiamo avere memoria: dal ’95, in Francia, ad esempio si passano la mano tra fratelli, cugini etc. Il fenomeno è antico e ce lo porteremo dietro anche dopo la sconfitta dell’Isis perchè i membri delle filiere (algerino-francese e marocchino-francese) sono passati da una parte all’altra; inoltre, c’è un problema di integrazione e anche noi siamo chiamati in causa per capire cosa vogliono le nuove generazioni.
Alberto Negri: C’è una grossa responsabilità anche dell’Europa per ciò che sta accadendo anche se ci sono stati alcuni momenti in cui si è provato a cambiare qualcosa: a metà degli anni ’90, ad esempio, Sant’Egidio provò a radunare intorno ad un tavolo, a Roma, le vecchie componenti del partito socialista algerino e le comunità islamiche per avviare un dialogo e sui muri di Algeri campeggiava la scritta: “W Sant’Egidio”.
Quando sconfiggeremo l’Isis ci saranno quelli che hanno preso parte alle guerre in Iraq e in Siria, ci sarà il ritorno dei foreign fighters, ritorno causato dalla destabilizzazione del Paesi, come è accaduto in Algeria e in Libia. Allora cosa possiamo fare? Possiamo fare qualcosa per la seconda generazione. Dobbiamo domandarci se siamo capaci di includere e dobbiamo essere credibili nella giustizia e nell’equità nei confronti degli altri.
Milena Santerini: Siamo angosciati da un fenomeno che non riusciamo a capire. Per prima cosa, allora, dobbiamo ascoltare le storie perchè il fenomeno è complesso. Molti ragazzi non vengono solo dalle periferie povere, ma sono anche di famiglie piccolo-borghesi, oppure vengono da quelle guerre che hanno fatto scoppiare, in loro, la rabbia.
Se non iniziamo a capire cosa hanno in comune questi ragazzi, non troveremo mai le soluzioni: si parla di “islamizzazione del nichilismo”, di umiliazione e di mancanza di speranza. Questi elementi sono alla base del terrorismo, terrorismo che è poi anche politicizzato. Il nostro errore è quello di credere alla propaganda: “Loro sono il vero Islam, quello delle origini”, ma questo non è vero. Queste sono forme deviate di Islam che si mescolano ad un senso di vittimismo e di risentimento. Quei ragazzi hanno la capacità di buttarci in faccia il sacrificio, anche della loro stessa vita.
Possiamo chiedere alle comunità islamiche di fare autocritica, ammettendo di non aver capito il disagio dei ragazzi e di essere stati compiacenti ( e questo vale anche per noi).
Alla società non musulmana possiamo chiedere il rispetto, a partire dalla scuola. Manca l’interpretazione di ciò che chiedono i ragazzi: il fenomeno del nichilismo radicalizzato è molto pericoloso e noi dobbiamo ripensare il nostro modello di integrazione, condannando qualsiasi forma di violenza.
Sumaya Abdel Qader: La tematica dell’estremismo (o radicalizzazione) è un problema di tutti: se ci sentiamo distinti, ci percepiamo lontani; se ci sentiamo vicini, ci percepiamo come parte della stessa società. I problemi e le paure sono comuni a tutti.
Possiamo evidenziare tre categorie di giovani: 1) giovani musulmani plagiati che restano chiusi in un mondo a sé. 2) I giovani che potenzialmente possono diventare terroristi e 3) giovani musulmani equilibrati, che vivono tranquillamente nella quotidianità.
Cosa chiedere a questi ultimi e alle istituzioni? Ai ragazzi musulmani di lavorare sulla propria identità, aprendo le porte al dialogo alle altre fedi e alla società civile.
Siamo sommersi da una propaganda strumentale per creare fobie per fare leggi “speciali” o per ottenere più consensi elettorali. Alle istituzioni, quindi, chiediamo di lavorare sulla cittadinanza, iniziando a riconoscere chi è nato in Italia da genitori stranieri. La cittadinanza non deve essere vista come una “concessione” perchè ormai la società è una società plurale e non possiamo affrontare queste questioni con fare paternalistico, ma come pari.
Shady Hamadi: La cultura della morte e del fondamentalismo nascono dagli ultimi cinquant’anni di Storia in quell’area del mondo: anni di dittature che hanno sradicato i giovani, privati di istruzione e di prospettive. In loro c’è un fatalismo che continua a riproporsi. L’80% dei sunniti, in Siria, è stato marginalizzato e deprivato dei diritti.
La questione principale, quindi, è quella del riconoscimento dell’Altro. E’ importante parlare CON gli arabi e non degli arabi, CON i musulmani e non dei musulmani e la sfida è quella di imparare gli uni dagli altri.
Mario Giro: Ci sarebbero tre modi di affrontare il problema: 1) Ricordare la Storia del mondo arabo, quei regimi durissimi che noi occidentali abbiamo ignorato o dei quali siamo stati complici, regimi che hanno fallito per cui c’è stata una rinascita islamica, un’utopia che è diventata un incubo totalitario.
Il terrorismo è una guerra, innanzitutto, contro gli arabi musulmani stessi, è uno scontro dentro una civiltà per il controllo geopolitico: tutti soggetti di quell’area dovrebbero sedersi attorno a un tavolo e dialogare per costruire un’ipotesi di convivenza o di equilibrio.
Processi di radicalizzazione sono presenti in qualsiasi religione, ma sono gestibili. Per l’Islam è peggio perchè, nei Paesi arabi, c’è la guerra: i reclutatori, i Maestri del Male, si fanno forte di questo. I video di Daesh, ad esempio, sono terribili, pieni di violenza quando sono rivolti a noi, ma quando sono rivolti agli adepti sono molti diversi: lo jihad è la risposta alla depressione, l’Occidente non è una democrazia perchè chi governa veramente sono le banche e così via…E così colpiscono nervi scoperti. Questo non è Islam, non è teologia.
Le storie dei ragazzi sottolineano il vuoto che a loro appartiene, ma che è proprio anche dei giovani italiani e occidentale. Anche qui c’è il problema di una generazione senza futuro, ma allo stesso tempo con un bisogno di Assoluto e quell’Assoluto può essere lo jihad. Si tratta di un bisogno di giustizia distorto che diventa una trappola per i ragazzi musulmani.
Dividere ed escludere crea insicurezza: pensiamo ai ghetti di italiani a New York e alla criminalità che lì è nata. Ognuno di noi deve fare il possibile per abbassare il livello di aggressività, cercando di considerare le persone per persone e non per categorie.