I ricami palestinesi come forma di identità e cultura
Il ricamo è come una terapia
Ogni volta che infili l’ago nel tessuto
Hai l’impressione di riannodarti a qualcosa
Perché il punto croce è come un nodo, un modo di resistere.
La mia generazione ha resistito facendo le rivoluzione
La sua generazione ha resistito facendo i ricami.
Leila Shahid
In Palestina i ricami sono espressione di una tradizione secolare ricca di significati simbolici e arricchita dalla contaminazione di scambi culturali ed artistici, sia per quanto riguarda la stilizzazione delle forme che per la scelta dei tessuti: ad esempio il velluto è stato introdotto dai pellegrini in visita a Gerusalemme.
Se questa tradizione è stata pressoché abbandonata nei primi vent’anni dopo la Nakba, negli anni Settanta iniziano le prime raccolte fino al continuo e pieno recupero dopo la Prima Intifada dove il ricamo e il recupero diventa un fattore sempre più importante nella conservazione della memoria e dell’identità. Ha così assunto la forma di un linguaggio del ritorno, del radicamento ma nello stesso tempo anche della forza e dell’importanza della bellezza e il riappropriarsi di momenti, luoghi e sentimenti di festa. Il cedro, la rosa, la tenda e le numerose figure geometriche realizzate a punto croce si ispirano fedelmente ad antichi modelli conservati nei musei, con simbologie della Palestina storica.
In mostra molti ricami, tra copricuscini, arazzi, tovaglie, borse e abiti femminili provenienti da laboratori del campi profughi di di Tel-Za’atar dove dal 1976 l’attivista milanese Adele Manzi ha fondato l’associazione Najdeh (“soccorso” in arabo).