“Stay human, Africa”: il genocidio in Rwanda, “A nessuno di noi viene data la possibilità di scegliere dove nascere e crescere”…
di Veronica Tedeschi
Sono solo un po’ più chiare. Le donne di etnia tutsi sono nere ma di un nero sbiadito. Hanno il “naso appuntito”, un nasino sotto al quale splende un sorrisino infimo che provoca gli uomini hutu.
Per questo meritano di morire, o forse no, lo meritano perché sono “scarafaggi”, come continua a definirle la radio locale, o forse ancora no, è necessario trovare un motivo per cui queste donne, con i loro bambini e i loro fratelli debbano morire. Trovato: sono tutsi, questo basta e avanza.
“Lei è bellissima, dolcissima, come molte donne rwandesi. E si muove lentamente. Rientra nella sua stanza a passo lieve, la tenda si srotola, il ragazzo prende in braccio la bara piccola piccola e inizia, ancora, di nuovo da capo, tutto il dolore del mondo concentrato in un essere umano.”
Il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale dell’allora presidente Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, fu abbattuto da un missile, mentre il presidente era di ritorno insieme al collega del Burundi Cyprien Ntaryamira da un colloquio di pace.
Questo scatena nel paese una serie di violenze che porta alla morte di 1.000.000 di persone, tutte di etnia tutsi: un genocidio. La prima fase di violenze fu studiata in modo meticoloso, nomi e cognomi di chi doveva morire erano scritti su “liste di annientamento”. Infatti, già dal giorno successivo all’abbattimento dell’aereo, la rabbia degli uomini hutu, tenuta a bada da troppo tempo, si scatena.
“Le sue urla a un certo punto sono così strazianti che le donne che stanno nella stanza dove sono rimasta seduta si contorcono, una si picchia in testa, le altre iniziano a piangere.”
La polizia hutu, armata di machete stermina tutti i tutsi presenti nel paese, i pochi che riescono a sfuggire si trovano in luoghi di confine o protetti dalle Nazioni Unite. Nell’arco di una settimana dallo scoppio dei disordini, tutti gli occidentali presenti in Rwanda vengono rimpatriati, gli eserciti francesi, italiani, inglesi atterrano con i loro aerei militare ma solo per recuperare i propri connazionali, senza curarsi della popolazione.
Tratti in salvo, tutti. Tranne i rwandesi.
“A nessuno di noi viene data la possibilità di scegliere dove nascere e crescere, almeno fino a un certo momento della vita. Nessuno di noi sceglie di nascere a Kigali, per essere ammazzato durante il genocidio nel 1994, piuttosto che a Sarajevo per innamorarti del tuo “nemico” e morire ammazzata con lui su un ponte, o impiccata a un albero perché orde di maschi ti hanno stuprata a più riprese, o in Afghanistan, bambino, bambina, per morire una notte, da “effetto collaterale”, perché un aereo, in un luogo per te sconosciuto della terra, si è schiantato su un palazzo, cosa per te altrettanto sconosciuta.”
L’intera popolazione viene abbandonata, le uniche forze di supporto a rimanere in Rwanda sono quelle delle Nazioni Unite (UNAMIR) o per lo meno i militari che sopravvivono. Anche i caschi blu vengono uccisi, quelli che difendevano la prima ministri tutsi, per esempio.
In 100 giorni muoiono circa 1.000.000 persone, quasi tutte di etnia tutsi, la radio locale hutu incita ad uccidere tutti gli “scarafaggi” presenti nel paese, la case vengono bruciate e i pochi hutu che cercano di aiutare gli amici e parenti tutsi vengono considerati traditori, e uccisi.
La storia rwandese è anche la storia dell’indifferenza occidentale di fronte a eventi estranei ai loro interessi. Un genocidio davanti il quale il mondo ha voltato il capo dall’altra parte o ha cambiato canale. I signori delle guerre internazionali lo sanno bene che qui non ci sono i soldi, il Rwanda non è di interesse di nessuno, non ha senso piantarci una guerra. Non ha senso aiutare la popolazione, non ha senso impedire il genocidio, non ci si guadagna niente a salvare nessuno in questo piccolo stato africano.
Anche le Nazioni Unite rimasero indifferenti alle richieste del generale Dellaire, preoccupato per l’imminente genocidio e che vide i suoi uomini ridotti da 2500 a 500 in un solo mese.
Il genocidio, ufficialmente, viene considerato concluso alla fine dell’Opération Turquoise, una missione umanitaria voluta e intrapresa dai francesi, sotto protezione dell’ONU.
Numerosi autori delle stragi rimasero impuniti o uscirono dal carcere pochi anni dopo, senza aver subito un processo equo. L’UNAMIR rimase in Rwanda fino all’8 marzo 1996 per assistere e proteggere la popolazione oggetto del massacro. L’ufficio delle Nazioni Unite riuscì a lavorare bene solo dopo il termine del genocidio, quando le morti si stavano contando.
Il 18 dicembre 2008, il tribunale internazionale speciale istituito ad Arusha, in Tanzania, ha condannato all’esgastolo per genocidio il colonnello Bagosora che nel 1994 era a capo dl Ministero della Difesa rwandese e ritenuto l’ideatore del massacro.
Questo ergastolo e tutte le altre pene inflitte non saranno in grado di riportare indietro 1.000.000 di persone e neanche basteranno a concedere ai sopravvissuti la pace e la dignità che gli spetta.
“Stacco sulle immagini dello stadio, 1994: bambini morti trascinati da bambini vivi ancora per poco. Un carnaio inimmaginabile, pentole che cuociono il nulla, masse indistinte di persone. E via di nuovo cadaveri gonfi che sbattono sulle rocce con le mani legate dietro le schiene. E poi la violenza indescrivibile in ogni colpo di machete che cala sulle teste di persone accucciate; uno si avvicina e prende un sasso e spacca la testa a qualcuno già a terra.”
Never again.
[Tutte le frasi citate in questo articolo provengono dal libro “Dalle Colline, le strade rosse del Rwanda” di Federica Cecchini, volontaria Msf che ha vissuto in Rwanda dopo il genocidio per diversi anni, con lo scopo di supportare ed aiutare le donne rwandesi a riprendersi la loro dignità.]
Una storia allucinante,ma ancora di più è il disinteresse mostrato dalle altre nazioni per questo genocidio. Se non c’è un fine economico il mondo non sente e non vede e neanche informa.