Una ragazza con la valigia: una storia di migrazione, un’esperienza di vita
Gigantografie di Tito alle pareti, l’inno jugoslavo cantato con orgoglio il giorno del giuramento da pioniere. Così ha inizio la storia di Petra, legata a doppio filo con quella della sua terra, la Croazia. In prima persona, la protagonista narra gli episodi più importanti della sua giovane vita: l’amore, le amicie, lo studio. Si scaglia contro le ingiustizie del sistema, l’obbligo a un’esercitazione militare finita in tragedia, e contro la rigida autorità paterna. AI suo fianco, l’inseparabile amica Maja; sullo sfondo, le vicende politiche che condurranno la Jugoslavia nell’incubo di una guerra assurda.
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato, per voi, Sanda Pandza autrice del romanzo Una ragazza con la valigia,edito da L’asino d’oro, e ringrazia molto l’autrice per aver condiviso la sua storia con i nostri lettori.
Una ragazza con la valigia si riferisce alla sua esperienza di migrante: come si è svolto il suo viaggio per arrivare in Italia dalla Croazia?
E’ stato un viaggio piuttosto lungo e soprattutto molto doloroso perché lasciai indietro tutto, la mia città, i miei parenti, i miei amici e il ragazzo del quale ero molto innamorata. Il distacco è stato difficile, mi sentivo addosso il peso di una scelta che non condividevo perché era mio padre che insistette a farmi partire. A diciannove anni è difficile comprendere e accettare un cambio di vita cosi drastico, senza nessuna certezza del futuro; si diventa adulti da un giorno all’altro sapendo di dover contare solo su se stessi. Poiché i collegamenti diretti con l’Italia via mare erano interrotti, presi la nave da Spalato fino alla città croata di Fiume, da lì con un autobus andai fino a Trieste dove presi il treno che mi portò a Roma.
Come era la sua vita – e quella della sua famiglia – in Croazia e quali sono i motivi che l’hanno portata in Italia?
Nel mio libro si può leggere e percepire ciò che si viveva nell’epoca di Tito e ciò che è successo dopo la sua morte: la grande crisi politica e economica e poi la fine della Jugoslavia finita con un conflitto atroce e disumano, che nessuno di noi si aspettava o credeva possibile.
In sottofondo ho voluto proporre una chiave di lettura diversa del perché molte cose erano successe nel mio Paese e soprattutto cercare di capire del perché il comunismo sia fallito: la responsabilità e colpa storica del comunismo è quella di aver creduto che per un’uguaglianza tra gli esseri umani fosse sufficiente il rapporto con la realtà materiale, quindi la soddisfazione dei bisogni, tralasciando completamente le esigenze psichiche. Ha spogliato l’essere umano dalla sua identità specifica in quanto tale, non per caso il mio libro inizia con la citazione dello Psichiatra dell’Analisi Collettiva Professor Massimo Fagioli che dice: “La libertà è l’obbligo di essere esseri umani.” Grazie al suo pensiero rivoluzionario e alla sua Teoria della nascita che parla della vera uguaglianza di tutti gli esseri umani, appunto quella alla nascita, sono riuscita a trovare tutte le risposte a mille domande che mi ero fatta in tanti anni e soprattutto trovare un’ identità di donna che il comunismo mi ha sempre negato.
Ci racconta un episodio accaduto appena arrivata? Com’è stata l’accoglienza nel nuovo Paese?
Ricordo il contrasto fortissimo che vissi come primo impatto: le strade di Roma erano piene di luci, era tutto addobbato per le festività natalizie, le persone che correvano ad acquistare i regali, un grande fervore dal quale fui piuttosto spaventata. Dall’altra parte sentivo un grande senso di ingiustizia e a tratti anche di grande rabbia perché mi sembrava come se il resto del mondo fosse completamente all’oscuro dell’orrore che stava succedendo dall’altra parte del mare. Seguii quotidianamente i notiziari, ad ogni immagine che trasmettevano mi sembrava di riconoscere i volti delle persone, a volte mi sentivo in colpa per la mia posizione “privilegiata” ma ben presto mi resi conto che il mio viaggio doveva essere uno riscatto per la mia famiglia, un’ opportunità per me stessa e che dovevo farcela.
Qual è stato l’iter burocratico per vivere e lavorare qui?
La prima barriera è stata senz’altro quella linguista, ma la superai in fretta. Seguirono tanti vicoli ciechi nella burocrazia per i quali fui costretta a vivere e lavorare come clandestina, avendo solo il visto turistico che scadeva dopo pochi mesi e con il quale non si poteva certo lavorare. Iniziai come ragazza alla pari presso una famiglia, poi proseguii come cameriera nei vari bar per i quali dovetti “acquistare” al mercato nero un libretto sanitario. Dopo un anno e mezzo mi iscrissi all’università ma quel permesso di soggiorno era solo per lo studio e non per il lavoro. Solo dopo quasi due anni mi fu rilasciato il permesso di soggiorno per motivi umanitari con il quale potevo finalmente essere messa in regola. Nel corso degli anni feci diversi lavori, mi laureai nel 2000 e l’anno dopo aprii la propria attività come organizzatrice di eventi, a tutt’oggi la mia professione.
Qual è la sua opinione sugli italiani e sulla politica italiana in tema di migrazioni?
Anche se nel mio caso non sempre è stato facile dimostrare le mie capacità di fronte ad alcuni episodi singolari di pregiudizio, oggi posso dire con certezza che in Italia ho trovato la mia rinascita perché ho incontrato molte persone che hanno creduto in me e alle quali oggi sono grata.
Chi decide di andare via dal proprio Paese di origine, lo fa per motivi validi e se il motivo riguarda la sopravvivenza, è il nostro obbligo aiutarli con tutti i mezzi possibili. E’ la base dell’umanità!
Per arrivare a delle soluzione valide, bisogna prima fare una rivoluzione del pensiero, per una sinistra nuova e laica. Vedere il “diverso” come una ricchezza e non come una minaccia, raccontare che esistono altre migliaia di immigrati che come me, non solo si sono perfettamente integrati nel nostro Paese, ma hanno anche realizzato una propria identità. Raccontare della speranza che diventa una certezza!