This is not paradise: le donne migranti e la semi-schiavitù in Libano.
Human Right Watch stima che dal 2007, circa due donne di servizio migranti, in Libano, si tolgano la vita ogni settimana perchè lavorano in condizioni di semi-schiavitù. Attraverso le testimonianze delle donne che sono riuscite ad emanciparsi, i racconti di coloro che le emarginano e dei volontari delle associazioni a sostegno dei diritti dei migranti si approfondisce un aspetto quasi sconosciuto del Libano e del Medio Oriente, dove tuttavia oggi è in atto un radicale cambiamento in positivo, grazie alla mobilitazione della società civile libanese e delle giovani generazioni.
L’Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande a Gaia Vianello, regista con Lisa Tormena, del documentario This is not paradise. Ringraziamo molto Gaia Vianello per la sua disponibilità.
Come è stata possibile la realizzazione di questo progetto cinematogtafico? Come siete riuscite a incontrare le donne che avete intervistato?
L’idea del documentario è nata durante il lavoro che ho svolto come cooperante internazionale in Libano.
Una delle prime cose che mi hanno colpita appena arrivata è stata la presenza capillare e diffusa di donne, molto giovani, di origine subsahariana o asiatica, che – spesso vestite in livrea – si accompagnavano a famiglie libanesi.
Le vedevo ovunque: nei ristoranti, in un tavolo in disparte, aspettando che la famiglia finisse di cenare; nei ricchi resort sulla spiaggia, impegnate a controllare i bambini sul bagnasciuga, mentre moglie e marito prendevano il sole; nei parcheggi dei supermercati, cariche di borse della spesa, intente ad seguire le “madames” verso le loro macchine; e spesso affacciate ai balconi di casa, durante una breve pausa dal lavoro domestico, a guardare fuori con occhi non molto felici.
Ho cominciato così ad interessarmi alla questione, scoprendo che il fenomeno ha una portata enorme: si stima una presenza di 250.000 collaboratrici domestiche migranti in un paese che conta 4.500.000 di abitanti, senza contare tutte coloro che passano per vie illegali e sulle quali è dunque difficile fare una stima.
Il mio soggiorno lavorativo in Libano mi ha permesso dunque di entrare in contatto con diverse Ong e associazioni che si occupano di diritti dei migranti, quali Kafa, Caritas Lebanon, Migrant Workers Task Force e Anti-Racism Movement, solo per citarne alcune, e questo a sua volta mi ha dato la possibilità di conoscere alcune donne e ragazze migranti, impegnate nelle maggior parte dei casi nel lavoro domestico.
Grazie ad una campagna di crowdfunding lanciata nel 2013, abbiamo potuto sostenere le riprese del documentario e parte della post produzione.
Come funziona il meccanismo della semischiavitù per le donne migranti in Libano? Nel documentario fate riferimento alla pratica del kafala…
Il problema principale riguardante la migrazione per lavoro in Libano è che nel paese non esiste alcuna tutela legale per il lavoratore migrante. I flussi migratori sono regolati dal sistema della Kafala, istituto giuridico che letteralmente significa “fideiussione”, e che comporta – nel caso dei lavoratori migranti che arrivano in Libano attraverso agenzie di reclutamento- che il datore di lavoro, il quale sostiene i costi di viaggio e delle pratiche per far arrivare il lavoratore, ne diventi automaticamente il tutore legale.
Per “tutelarsi” da eventuali problemi, la grande maggioranza dei datori di lavoro, una volta che le lavoratrici domestiche atterrano in suolo libanese, confisca loro il passaporto, e lo detiene durante tutta la loro permanenza.
Ciò comporta che queste donne, se vogliono uscire dalla casa in cui lavorano, si trovino sempre in una situazione di illegalità, perché se vengono fermate dalla polizia senza documenti vengono dichiarate clandestine e portate automaticamente in carcere.
Uno studio svolto nel 2010 dall’Università Americana di Beirut per Human Rights Watch stima che il 99% delle lavoratrici domestiche non ha libertà di movimento e che il 55% di esse lavora più di 12 ore al giorno, senza una giornata libera.
Si generano dunque per queste donne situazioni al limite del sostenibile, che possono arrivare fino al suicidio.
Molte donne si sono tolte la vita, ma come sono riuscite a salvarsi le altre?
Ovviamente non è possibile fare generalizzazioni, visto anche i numeri legati al fenomeno migratorio in Libano: vi sono molti contesti in cui le lavoratrici si trovano bene, lavorando per datori che rispettano orari e retribuzioni.
In molti casi però, quando le situazioni di abuso giungono al limite, le lavoratrici domestiche non hanno altra scelta che scappare dalla casa presso cui sono recluse. Questo ovviamente comporta dei rischi molto alti: si trovano infatti senza documenti in una situazione di clandestinità e molto spesso vengono arrestate. I processi hanno dei tempi molto lunghi, anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle ambasciate dei paesi di origine, che possono andare fino ad oltre un anno. Inoltre, devono essere in grado di mettere insieme la somma per fare rientro nel proprio paese, e questo non è sempre facile.
Le donne che abbiamo intervistato nel documentario sono esempi di lavoratrici domestiche che sono riuscite ad emanciparsi: vuoi perché sono riuscite a portare a termine il proprio contratto, solitamente della durata di due anni, e quindi a ritornare in possesso dei propri documenti, vuoi perché hanno trovato, lungo il loro percorso, datori di lavoro che le hanno assunte con condizioni di lavoro decenti.
Quali sono le attività delle associazioni e del volontariato che operano sul campo?
Mentre fino a qualche anno fa, sebbene il problema delle lavoratrici domestiche migranti fosse ampiamente diffuso – non solo in Libano, ma in tutto il Medio Oriente- si tendeva a rimuovere il problema: i media ne parlavano raramente e le Ong che si occupavano della questione si contavano sulle punta delle dita.
Tuttavia a partire dal 2012 sono andate crescendo le associazioni e i movimenti in difesa dei diritti dei migranti.
Questi si occupano prevalentemente di garantire un appoggio psicologico, legale e medico e, contestualmente, portano avanti un’azione di lobbying per la abolizione del sistema della kafala e la sensibilizzazione della società civile libanese.
E’ in atto, per fortuna, un cambiamento positivo: in cosa consiste e chi vede coinvolti?
Nel 2012 un video divenuto virale su youtube ha di fatto cambiato l’approccio dell’opinione pubblica nei confronti delle lavoratrici domestiche in Libano: Alem Dechasa, giovane madre etiope venuta a lavorare in Libano da qualche anno per sostentare la propria famiglia, recatasi davanti all’ambasciata etiope per chiedere aiuto, viene brutalmente presa di peso dal titolare dell’agenzia di reclutamento che l’aveva portata nel Paese, e trascinata in macchina. Due giorni dopo questo fatto, ripreso con un telefonino e caricato on-line, la donna si suicida nell’ospedale presso cui era stata ricoverata.
Quest’evento ha di fatto puntato i riflettori dei media sulla questione, scuotendo le coscienze dei libanesi, in particolare delle giovani generazioni che hanno cominciato a costituirsi in associazioni a sostegno delle lavoratrici migranti, al fine di garantire loro un’esistenza decente e di far pressioni sul governo per un cambiamento radicale della legislazione.
Alla fine del 2014 è nato il primo sindacato delle lavoratrici migranti, che tuttavia, ad oggi, non è ancora stato riconosciuto dal governo libanese.
Il documentario “This is not paradise” è disponibile on demand sul sito www.distribuzionidalbasso.com: è possibile richiedere il link per visionarlo on-line, il dvd, oppure l’organizzazione di una proiezione.
Il ricavato delle vendite andrà a finanziare il nuovo documentario di Gaia Vianello “Les amoureux des bancs publics”, a produzione Sunset Soc. Coop., sulla street art come mezzo di cittadinanza attiva in Tunisia.