Libia: tra violazioni dei diritti umani e la guerra d’Occidente
di Farid Adly
In Libia, il Parlamento ha rinviato per l’ennesima volta la seduta con all’ordine del giorno il voto di fiducia al governo Sarraj, proposto dall’ONU. La miopia politica e il prevalere degli interessi personali e di gruppo stanno impedendo la salvezza del paese dall’offensiva jihadista e da un imminente intervento occidentale. Il tutto sta avvenendo mentre sull’operato delle diverse milizie libiche sta calando la dura condanna dell’ONU per le violazioni dei diritti umani.
Tutte le parti coinvolte nel caotico conflitto in Libia sono considerate colpevoli di crimini di guerra, comprese torture, violenze sessuali ed esecuzione sommarie di prigionieri. Le Nazioni Unite hanno sollecitato la comunità internazionale a fare di più per consegnare i responsabili alla giustizia. “Una moltitudine di attori, sia statali sia non statali, è accusata di gravi violazioni e abusi che potrebbero, in molti casi, equivalere a crimini di guerra”, ha dichiarato il responsabile dei diritti umani dell’Onu, Zeid Ra’ad Al Hussein.
Un rapporto diffuso qualche giorno fa che documenta gli abusi commessi in Libia tra il 2014 e il 2015 ha denunciato che la situazione si era pesantemente aggravata negli ultimi due anni, da quando la cosiddetta “Alba libica”, la coalizione di milizie islamiste ha preso il controllo sulla capitale Tripoli con la conseguente fuga del governo verso l’Est libico e l’insediamento del Parlamento a Tobruk, al confine con l’Egitto. Un vuoto di potere che ha permesso la crescita del movimento Daiesh in Libia, che al momento ha il suo ‘quartier generale’ nella città natale del defunto diottatore, Sirte.
Il rapporto dell’ONU dettaglia come la maggior parte dei gruppi armati operativi nel Paese abbiano “commesso omicidi illegali” in particolare giustiziando persone fatte prigioniere o coloro che erano visti come dissidenti. La squadra di inchiesta che ha lavorato sul rapporto, composta da sei persone, è riuscita a visitare la Libia solo per un breve periodo durante il suo lavoro, che ha richiesto un anno di tempo, a causa della pericolosissima situazione di sicurezza; è riuscita comunque a effettuare colloqui con oltre duecento vittime e testimoni.
In occidente sembra passato il piano di intervento denominato piano B, con o senza legittimità internazionale. La Casa Bianca ha già dettato la linea con l’attacco sulla base di Daiesh a Sabratha, ottenendo la collaborazione di Gran Bretagna, da dove sono partiti i caccia e dell’Italia, che ha dato il consenso al decollo dei droni dalla base USA di Sigonella, in Sicilia. La linea interventista di Washington è stata assecondata da Francia e Gran Bretagna, che hanno già sul terreno reparti speciali. E dalle ultime dichiarazioni di esponenti del governo e dopo la riunione del Consiglio Supremo di Difesa, convocato al Quirinale dal presidente della Repubblica, Mattarella, malgrado il politichese, sembra in arrivo anche un probabile assenso italiano, dopo l’accordo per le operazioni offensive dei droni USA a partire dalla base di Sigonella, accordo rivelato dalla stampa statunitense.
Non solo, ma secondo fonti libiche, a Mlita, vicino a Zuara, ci sono forze speciali italiane in difesa dell’impianto di Gas, che collega le coste libiche con il terminale di Gela.
Tutto questo suonar di tamburi di guerra viene fatto nel nome di un dilagarsi dell’influenza di Daiesh su nuovi territori in Libia, sfruttando il vuoto politico nato dalla permanente indecisione sul governo di riconciliazione nazionale proposto dall’ONU, dopo lunghe trattative a Skhierat in Marocco, tra le parti libiche con coinvolgimenti a diversi livelli. In realtà per combattere Daiesh non ci sarebbe bisogno di truppe combattenti straniere, ma sarebbe utile e sufficiente mettere fine all’embargo internazionale contro l’Esercito libico. E quello che, da almeno un anno e mezzo, chiedevano il governo ed il Parlamento riconosciuti internazionalmente, si è rivelato una realtà, proprio in questi giorni a Bengasi. La vittoria militare delle truppe governative che hanno conquistato le ultime due roccaforti degli jihadisti nel capoluogo della provincia orientale, ha dimostrato appieno che una volta aggirato l’embargo sugli armamenti, l’esercito libico ha la capacità di sconfiggere il terrorismo jihadista. A Bengasi i rifornimenti militari francesi arrivati a Zentan via terra dalla Tunisia e poi per via aerea fino a Benina, l’aeroporto di Bengasi, hanno permesso di bloccare l’arrivo di nuove reclute e armamenti via mare da Sirte agli jihadisti assediati nei quartieri di Allithi e Abu Atni. La stampa libica da tempo parla della presenza di reparti speciali francesi a Labraq e britanniche a Tobruk, ma ufficialmente avrebbero compiti di addestramento. Le Monde ha rivelato invece che questi reparti hanno compiti di azioni sul terreno, per assassini mirati e operazioni speciali.
In questo quadro di avanzato coinvolgimento degli occidentali in operazioni militari in Libia, la linea di prudenza italiana, che antepone il raggiungimento di un accordo politico tra le parti libiche, prima di un intervento, nel quadro dell’ONU o per richiesta di un governo unitario, nei limiti di un operazione di peacekeeping, viene ad essere sconfessata dal protagonismo delle altre potenze occidentali. Gli interessi contrapposti fanno avanzare anche scenari di smembramento della Libia in tre province, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, come ai tempi dell’impero ottomano. Ipotesi fortemente contrastata dai politici e dalla società civile libica e non credo possa essere portata a termine, se non al costo di molte vite umane libiche ed occidentali.