Fuocoammare: le migrazioni, la morte e la vita
Una nonna cuce e accanto c’è il suo nipotino, Samuele. Fuori tuona e la nonna spiega che il brutto tempo è pericoloso per i pescatori al largo e che i tuoni sembrano rumori di guerra, quando c’era come “il fuoco a mare”. Nell’inquadratura successiva la donna chiede alla radio locale di mandare in onda la canzone “Fuocoammare”…Samuele è il protagonista della docufiction di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino, riconfermandosi autore e regista di gioielli documentaristici che – come con Sacro Gra, primo premio alla Mostra del Cinema di Venezia – raccontano la realtà meglio di tante inchieste giornalistiche.
Samuele è un bambino particolare: è nato a Lampedusa, ma soffre il mal di mare; ha un occhio pigro, ma ama colpire gli uccelli con una fionda. Per guarire l’occhio sinistro deve portare una benda su quello destro e questo gli crea problemi nel mirare per cui il gioco, che condivide con il suo migliore amico, non funziona più tanto bene: gli uccelli, esseri liberi e migratori, non vengono più colpiti dalla violenza di chi ora non riesce a guardare con attenzione.
E proprio lo sguardo è centrale nei film di Rosi: quello del regista è uno sguardo neutrale, ma quello della cinepresa è intrinsecamente diretto. Rosi entra con rispetto nella vita quotidiana della famiglia di Samuele e della comunità lampedusana, ci fa conoscere il dj Pippo, il pescatore anziano, il sub Franco e Pietro Bartolo, il medico dell’isola che diventa trait d’union tra la vita e la morte. Sì, perchè la vita degli isolani scorre tranquilla, immersa nelle sue tradizioni antiche e in quel rapporto col mare che dà pesce, nutrimento e futuro. Ma l’altro filone narrativo, il più importante, è quello che riguarda la morte dei tanti migranti che sognano la terra ferma, ma che non riescono a raggiungerla ed è proprio a loro che Rosi ha dedicato il premio ricevuto.
La storia di Samuele e della sua nonna è una vicenda individuale, piccola e banale che si intreccia alla grande Storia, quella che vede coinvolte tante persone: uomini, donne e bambini che fuggono dai propri Paesi d’origine e, stremati, cercano rifugio e protezione in Italia, in Europa. Tanti africani (come siriani e individui di varie nazionalità) che, nella luce livida dell’alba, disidratati, spaventati, stanchi, infreddoliti, piagati si accasciano a terra o tra le braccia dei primi soccorritori, sguardo perso e muti per la paura. E poi tante e tanti che si sono dovuti arrendere durante il lungo viaggio nel deserto oppure sul barcone fatiscente che li stava traghettando come un moderno, terribile Caronte. Nel sottofinale Rosi inquadra alcuni corpi senza vita, corpi avvolti in sacchi di plastica e issati sul ponte di una nave militare; poi entra nella stiva e ne riprende altri con inquadrature fisse che si inchiodano nella memoria degli spettatori; torna in esterni e riprende il cielo e una mezza eclissi di sole. Torna il ciclo della vita, della morte e poi,a ncora, della vita.
Dal punto di vista tecnico, il lavoro mescola documentazione della realtà con una sceneggiatura che affonda le radici, sempre e comunque, in ciò che accade davvero nella quotidianità dei bambini e degli altri abitanti dell’isola. La struttura del racconto è basata sull’uso sapiente del montaggio di Jacopo Quadri capace di creare, con stacchi e dissolvenze, una trama poetica e potente allo stesso tempo. L’acqua marina, l’aria del cielo e delle nuvole, il fuoco per la benzina delle navi e per cucinare, la terra tanto desiderata: tutti gli elementi vengono rappresentati, fino quasi a sentirli sulla pelle, i quattro elementi danno vita e speranza. Ma quel mare, quel fuoco e quell’aria possono diventare nemici, farsi pericolo e poi anche arma per chi è così cieco da non vedere più la sofferenza dei propri simili.