Mare nero, mare nero, mare ne
di Cecilia Grillo
6 maggio 2011, Libia, sono 750 a bordo di una grande nave, eritrei, bangladesi, somali, arabi, ne muoiono 650, 400 erano ammassati nella stiva, loro muoiono per primi, erano stati chiusi dentro.
Siamo a Lampedusa, è il 3 ottobre 2015, sono 366 le vittime morte in mare ufficialmente accertate, 360 erano eritrei.
A 800 metri dall’Isola dei Conigli il peschereccio si ferma, probabilmente c’è un’avaria. Passano due grandi navi, ma proseguono dritto, il peschereccio inizia a imbarcare acqua.
I traghettatori avevano compattato 250 persone su una piccola barca, chiedendo a tutti di stare fermi e non muoversi perché per portare a termine la traversata si doveva mantenere un certo “balance”, così lo chiamavano, la barca altrimenti si sarebbe rovesciata. Passano le ore, la gente si agita, il trafficante di uomini per riportare il silenzio infuoca un panno e lo sventola in aria. Le persone si muovono spaventate, il “balance” viene meno e la barca si ribalta, solo 36 persone si salvano.
Sempre a Lampedusa, è l’11 ottobre 2013, sono 268 i siriani morti in mare.
Tre sono state le chiamate del barcone naufragato alla marina nautica italiana, la risposta dopo due ore invece è stata solo una e coincisa: “Chiamate Malta, è l’autorità di competenza”.
Libia, 14 settembre 2014. 224 morti: solo 26 delle 250 persone che si trovavano a bordo del barcone a largo della Costa libica vengono tratte in salvo. “Ci sono così tanti morti che galleggiano sul mare”, queste le parole del porta voce della marina libica Ayub Quassem.
21 settembre 2014. 55 morti. 120 ragazzi africani erano partiti la notte precedente, il gommone su cui viaggiano si sgonfia e lanciano un SOS, arriva una grande nave con scritto “Malta”, li vede, li supera, passano le ore, sopraggiunge un altra grande nave con scritto “Malta”, questa volta si ferma, gettano una corda e nel tentativo di qualcuno di afferrarla il gommone si ribalta, il personale della nave rimane immobile per un’ora e mezza a guardarli annegare, dopodiché raccoglie i superstiti, sono 55 i morti.
19 aprile 2015, un peschereccio con 900 migranti si capovolge, sono 28 i superstiti che vengono recuperati, più di 800 i morti.
E così si potrebbe continuare all’infinito: 12 maggio 2008, un barcone di migranti va alla deriva, 47 sono i morti per fame e freddo buttati in mare successivamente dai compagni, 2 giugno 2011,70 i dispersi, 12 gennaio 2012, un gommone con 55 somali è andato alla deriva, 12 luglio 2012, 54 morti.
La morte in mare durante la traversata è solamente uno dei tanti rischi che deve essere disposto a correre chi intraprende il viaggio verso l’Europa.
Perché non iniziare dai traghettatori, i trafficanti di uomini, cui ci si rivolge per intraprendere la traversata. I migranti e i rifugiati vanno incontro agli abusi lungo tutto il viaggio organizzato dai trafficanti, dall’Africa orientale e occidentale verso le coste della Libia.
I traghettatori spesso sono farabutti, alcuni stuprano le donne prima di intraprendere il viaggio, altri picchiano i migranti, negano per giorni acqua, cibo e cure mediche, li obbligano a buttarsi in acqua anche se non sanno nuotare.
Alcuni scafisti segnano con i coltelli la testa dei migranti distinguendoli in base all’etnia, altri li picchiano con cinture e li rinchiudono per giorni in stive senza acqua e senza cibo. Alcuni migranti durante il viaggio muoiono asfissiati, soffocati, altri muoiono schiacciati, altri ancora perché gli sono state gettate in mare le medicine necessarie per la loro sopravvivenza.
Ma tutto ha inizio ben prima, quando si tenta di raggiungere la Libia.
Uno dei rischi maggiori per i subsahariani è quello di essere catturato dai trafficanti o da altre bande locali a scopo di estorsione o essere venduto a questi dagli stessi traghettatori che organizzano il viaggio.
Ci sono dei centri, in generalmente abitazioni in disuso o locali abbandonati, in cui vengono tenuti e torturati i prigionieri incatenati sotto terra, nelle cantine delle case o in caverne buie, fino a quando la famiglia non paga per il loro rilascio.
Le cifre dei riscatti sono sui 30/40 mila dollari a persona, insostenibili per le famiglie delle persone rapite, che si indebitano per affrontarle.
Non ci sono molte vie d’uscita: o si paga, o si rimane in schiavitù.
I centri detentivi più conosciuti sono quelli del deserto del Sinai. Intorno a queste prigioni gira un traffico milionario: stando alle stime di Meron Estefanos fra il 2009 e il 2013 almeno 30mila persone sono state sequestrate nel Sinai, per cifre che si aggirano intorno ai 622 milioni di dollari.
Inizialmente le vittime erano tutti migranti provenienti dal Corno d’africa, ma col passare del tempo i trafficanti si sono concentrati sugli eritrei.
Questo cambio di rotta è dovuto alla diaspora fra Israele e l’Europa, al fatto che sembrino gli unici in grado di pagare e perchè maggiormente in fuga a causa del totalitarismo del loro governo e della leva militare obbligatoria permanente a partire dal diciassettesimo anno di età; gli addestramenti iniziano a undici anni.
Una volta arrivati in questi centri di prigionia si viene torturati, gli schiavisti danno il telefono al migrante di turno, gli dicono di chiamare la famiglia per ottenere il riscatto e, appena qualcuno risponde all’altro capo del telefono, vengono inferte loro le peggiori torture in modo che urlino di più.
Le torture sono fra le più svariate, oggetti di plastica bruciati e fatti colare sul corpo e sul viso, tagli su cui viene cosparso sale o peperoncino, stupri, pestaggi.
I migranti vengono messi in container di blastica ardenti e lasciati lì per giorni sotto il sole del deserto.
I superstiti del Sinai sono subito riconoscibili: hanno mani, piedi e schiena bruciati, volti tagliati, ferite inferte su tutto il corpo, a molti mancano delle dita perché vi è stata sciolta della plastica sopra tanto bollente da far squagliare la pelle.
Per non parlare poi della vendita di organi. A chi non può permettersi di pagare il riscatto viene proposto di vendere un organo, qualcuno accetta, altri no. Spesso dopo violenti pestaggi i corpi esanimi vengono presi e portati in una stanza separata, arriva un medico con una borsa frigo, inietta un anestetico con una siringa e dopo un po’ se ne va, sono stati ritrovati molti corpi con cicatrici di operazioni e suture in diversi punti.
Gli eritrei hanno un rischio in più rispetto agli altri: se vengono scoperti in fuga dalla polizia locale vengono etichettati come oppositori al regime e vengono scortati nei campi di concentramento eretti da Isaias Afewerki.
I campi più conosciuti sono Eiraeiro, Wi’a, Track B, le isole Dahlak. Qui i detenuti vengono sottoposti alle peggiori torture: frustate sulla pelle nuda con cavi elettrici, appesi a testa i giù, picchiati per un nonnulla e lasciati per giorni senza cibo.
I corpi sono putridi, sporchi, pieni di insetti, rinchiusi in stanze piccolissime e buie.
Se anche i migranti riescono a superare tutti questi ostacoli e uscire dall’Africa a bordo di un peschereccio c’è sempre il rischio, come abbiamo visto prima, di morire in mare.
Un rischio elevatissimo di morire annegato perché l’imbarcazione va a fondo, di morire soffocato nelle stive o schiacciato dagli altri corpi, di morire per l’assenza di medicine, o perché i barili di benzina si rovesciano nella stiva.
Tutto il percorso è ovviamente scandito dalle continue sevizie e maltrattamenti compiuti dai traghettatori.
Ma non è ancora finita: anche per chi riesce a superare tutti questi ostacoli, in ogni caso, non è ancora finita.
Una volta giunti in Italia deve avvenire il riconoscimento per poter accedere alla domanda di asilo nel nostro Stato.
Chi non riesce ad essere identificato perché non in possesso di documenti viene etichettato come migrante irregolare e inserito nei CTP, dei centri di espulsione e di permanenza temporanea, che hanno 90 giorni per individuare lo Stato di appartenenza del migrante e rimandarlo indietro.
Anche in questi centri i trattamenti sono fra i peggiori, continui pestaggi e condizioni disumane; quando i detenuti tentano di fuggire vengono ridotti a carne da macello e a volte addirittura spediti in uno Stato di appartenenza in realtà mai individuato perché le guardie e gli operatori non saprebbero come giustificare le loro condizioni fisiche.
E in ogni caso non è ancora finita.
L’Italia non è la tappa finale di molti dei migranti, spesso sono gli stati nordici, in cui possono trovare più tutele e sussidi sociali. Altre volte il passaggio non avviene dalla Libia, ma dalla Grecia, o intraprendono la lunga rotta dei Balcani. E il viaggio continua .
Ma chi mai farebbe una cosa del genere? Chi mai lascerebbe la propria famiglia, il proprio lavoro, la propria casa, gli amici per intraprendere un viaggio al termine del quale se sei fortunato ti ritrovi senza due dita o senza tuo fratello che è morto in mare, o senza un rene perché ti è stato asportato? Un viaggio che può durare mesi o anni e durante il quale con buone probabilità trascorrerai del tempo in prigioni simili a gulag? Quanto li pagheranno per intraprendere un viaggio di questo tipo? Niente! Non solo non vengono pagati, loro stessi pagano cifre sui 1.500 euro per essere maltrattati, abusati, picchiati e infilati nelle stive di barche, da cui potrebbero non uscire più.
E perché tutto questo? Perché sarebbero disposti a tutto questo? Perché i loro paesi sono in guerra o perché quando escono di casa rischiano di rimanere uccisi dall’esplosione di una bomba? O forse perché non vogliono vedere il figlio di 12 anni imparare ad usare una pistola anziché studiare le equazioni? Magari perché si sentono abbandonati dal resto del mondo e dagli enti internazionali che poco fanno per soccorrerli?
E perché noi non li capiamo? Cosa c’è di così difficile da capire nella disperazione di chi è disposto a rischiare la vita pur di scappare?