“Non siamo stati noi”: l’indagine per Giulio Regeni
di Amedeo Ricucci (che ringraziamo tantissimo per la disponibilità)
“Non siamo stati noi”. Il generale Al Sisi lo ripete senza sosta da quasi tre mesi, ma in Egitto come in Italia non gli crede quasi nessuno. E’ in primo luogo il corpo martoriato di Giulio a smentirlo, quelle sevizie e quelle torture inflitte da mani esperte e senza scrupoli, che sono una firma chiara e inequivocabile, delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza. E lo smentisce poi la pseudo-inchiesta imbastita per trovare i responsabili di quella morte orribile: l’accavallarsi cioè di ipotesi ridicole e fantasiose – prima l’incidente stradale, poi il delitto a sfondo sessuale, infine la rapina finita male – che sono crollate una dopo l’altra, perché non c’era nessuna prova a sostenerla.
Il presidente egiziano è però abituato a mentire. E lo fa sempre in maniera spudorata, anche quando c’è l’evidenza a smentirlo. In più, è fissato con i “complotti”, di cui infioretta la sua narrativa politica, sperando di compattare il suo popolo in nome dell’orgoglio nazionale. Secondo lui c’è “gente cattiva” in Egitto che ha approfittato del caso Regeni per accusare i suoi servizi segreti e screditare il governo. Ma quello che è ancor più grave – ha aggiunto – è che gli italiani hanno creduto a queste bugie.
Nel mirino di Al Sisi ci sono soprattutto gli attivisti e le associazioni per i diritti umani che sul caso Regeni si sono mobilitati fin dall’inzio, all’insegna dello slogan “Giulio è uno di noi”, con cui la terribile sorte toccata al giovane ricercatore italiana veniva accomunata a quella delle migliaia di egiziani spariti, arrestati, torturati e uccisi sotto la presidenza di Al Sisi. Giorno dopo giorno si moltiplicano
gli hastag, le pagine Facebook e i gruppi che hanno “adottato” Giulio Regeni e l’hanno trasformato nel nuovo simbolo della protesta politica e sociale.
Difficile capire come andrà a finire. E’ vero infatti che il regime egiziano non può permettersi la verità sul caso Regeni, perché mai al mondo è successo che uno stato di polizia abbia sconfessato i propri apparati di sicurezza, che sono il collante del suo potere. Ma è vero anche che se continuano le pressioni internazionali – dell’Italia, ma anche degli altri Paesi occidentali – nessuna verità di comodo potrà mai risultare sufficiente, se non altro perché dovrà passare al vaglio degli investigatori italiani e degli organismo internazionali. E’ un cul de sac che Al Sisi si sarebbe risparmiato volentieri, frutto però delle sue ripetute menzogne.