Città, architettura e migrazioni: intervista a Nausicaa Pezzoni
Attraverso 100 mappe di Milano disegnate da altrettanti migranti ‘al primo approdo’ affiora e prende forma la geografia di una città pressoché sconosciuta a chi è residente stabile: una città che include, che attrae, che divide, che mette in relazione o che si fa temere, a seconda dei significati di cui si caricano i suoi spazi nell’osservazione di chi si disponga ad abitarli. In un contesto che rappresenta il laboratorio di cambiamenti più avanzato in Italia, viene attualizzato e applicato un metodo – quello introdotto da Kevin Lynch nell’Immagine della città – per studiare la percezione dell’ambiente da parte dei suoi abitanti. Questo è La città sradicata. Geografie dell’abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano.
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato l’autrice, l’architetto Nausicaa Pezzoni che ringrazia molto. |
Come nasce l’idea di questo saggio e come si è documentata per poterlo realizzare?
L’idea di esplorare la città attraverso lo sguardo dei migranti deriva dall’osservazione di come stanno cambiando le forme e i significati dell’abitare nella città contemporanea, attraversata in modo sempre più profondo dalle traiettorie di vita di popolazioni in transito: abitanti che vivono uno sradicamento non solo dalla città di provenienza, ma anche da quella d’approdo.
L’ipotesi che ha dato vita a questa ricerca è che la condizione di instabilità, cui la crescente mobilità delle popolazioni urbane sembra dar voce, sia connaturata all’abitare contemporaneo, cioè che riguardi un modo di relazionarsi con la città che coinvolge, seppur con intensità e modalità diverse, tutti i suoi abitanti. Un’ipotesi che mi ha indotta a considerare l’abitare dei migranti come paradigmatico di un cambiamento di prospettiva nel rapporto tra individuo e spazio – dall’identificazione col territorio abitato a una relazione di non appartenenza, mutevole, aperta, in divenire con la città.
Indagare ‘lo sguardo degli altri’ su un territorio che è, per chi non vi appartiene e non vi si riconosce, un terreno di esplorazione oltre che di spaesamento, è diventata la sfida per pensare la città contemporanea dall’interno di un abitare che ne sta progressivamente tratteggiando le forme; ed è un modo per prendere distanza da un’immagine consolidata del territorio che abitiamo, lasciando affiorare forme di relazione con lo spazio dove il significato attribuito ai diversi luoghi definisce i contorni di un’appartenenza di nuovo genere: un “abitare senza abitudine” che lo sguardo estraniato dei migranti ci consente di scoprire.
L’idea di questa pubblicazione nasce anche dalla necessità di colmare un vuoto nel campo della progettazione urbanistica, studiando una dimensione che non viene trattata, pur essendo sempre più urgente: quella della transitorietà dell’abitare, che non può essere ignorata se si vuole fare spazio a una città di tutti.
Per documentarmi ho seguito due traiettorie: un’esplorazione della letteratura e un’indagine sul campo. Sul piano teorico, mi sono confrontata con le voci di chi, in campo urbanistico ma anche sociologico e antropologico, sta indicando nel movimento, nello spaesamento dell’abitare la cifra della contemporaneità; e di chi in ambito geografico e delle scienza della complessità sta mettendo in discussione il punto di vista scientifico dominante, quello che pretende di oggettivare il mondo che rappresenta. Un punto di vista che mi ha indotta a spostarmi dallo strumento della cartografia tecnica come lente attraverso cui leggere e interpretare la città.
L’indagine sul campo è stata determinante per guardare da vicino le trasformazioni in atto, dando voce proprio a coloro che pur essendone tra i principali artefici sono tuttora esclusi dalla lettura e dal progetto della città.
La città di Milano è a misura di “donne immigrate” ?
Milano è una città che offre molti servizi agli immigrati, non specificatamente alle donne, ma in generale ai nuovi abitanti della città. Tuttavia si tratta di servizi spesso autoreferenziali, distribuiti sul territorio senza una rete che li connetta, una sorta di infrastruttura dell’accoglienza di cui una grande città europea come Milano dovrebbe dotarsi.
Quali sono gli spazi e i luoghi maggiormente frequentati dai migranti in transito?
Gli spazi più frequentati dai migranti sono quelli spesso lasciati vuoti, dimenticati dai residenti stanziali; sono le piazze, i parchi, i luoghi semi-deserti che vengono occupati da molteplici attività “non codificate” dell’abitare quei determinati luoghi.
Ci troviamo spesso ad essere inaspettatamente immersi in un contesto completamente trasformato da come lo avevamo sempre conosciuto: il parcheggio di Cascina Gobba che diventa mercato delle popolazioni dell’Est Europa durante il weekend, o lo spiazzo davanti alla Fabbrica del Vapore trasformato in moschea all’aperto per la festa di fine Ramadan. Si tratta di luoghi considerati insignificanti o marginali dai residenti, e che diventano invece luoghi di aggregazione, di scambio per chi è appena approdato e sta cercando nella nuova città gli spazi dove poter svolgere le diverse attività che danno forma all’abitare. Quando ci imbattiamo in queste piazze, ci sentiamo spesati nella nostra città, ma nello stesso tempo scopriamo spazi che non esistevano come luoghi abitati, e che vengono fatti esistere nell’essere inclusi in un sistema di relazioni, di rapporti commerciali, di scambi di informazioni, di attività che si prendono in cura quello spazio indifferenziato e lo significano, e nel significarlo se ne appropriano, lo rendono accogliente per le popolazioni che lo frequentano, facendo sì che quel luogo divenga abitabile per tutti i cittadini.
Ci sono poi i luoghi considerati come “porte d’accesso” alla città: il Centro di Aiuto del Comune, un riferimento indispensabile per per farsi indirizzare verso i diversi servizi di accoglienza; i dormitori, le mense, gli ambulatori medico-sanitari delle fondazioni religiose, il Naga dove trovare assistenza legale e il Naga Har, centro diurno e scuola di italiano per i rifugiati e i richiedenti asilo; c’è la Casa della Carità, dove hanno sede un dormitorio, una mensa, una scuola di italiano e dei nuclei abitativi per donne e bambini.
I migranti frequentano molto i parchi, in quanto luoghi pubblici ‘disponibili’, e in inverno le biblioteche, che sono luoghi sicuri per le persone che abitano nei dormitori, e che durante il giorno non hanno un posto dove stare: nelle biblioteche si può accedere a internet, trovare riparo dal freddo, leggere.
Qual è il rapporto che si viene a instaurare tra italiani e stranieri in alcune zone delle metropoli? E’ possibile la convivenza?
Milano è una città dove la convivenza tra italiani e stranieri si fa sempre più intensa, non ci sono “ghetti”, ci sono semmai alcune zone più densamente abitate dai migranti, come via Padova, l’area intorno a piazzale Maciachini, la zona Corvetto. Quello che emerge dalle mappe è inaspettatamente la tendenza da parte dei migranti a evitare proprio le zone abitate da molti immigrati, perché considerate marginali e alle quali dunque non si vuole essere assimilati, indipendentemente dal fatto che gli abitanti siano della propria o di un’altra etnia. Oppure perché sembra di essere in un’altra città; una migrante disegnando la mappa mi disse “questa non sembra Milano, e allora io non ci vado” indicando via Padova.
Interessantissime sono la mappe disegnate dai migranti: ce ne vuole parlare? E quale sarebbe la loro città ideale?
La mappa che mi ha sorpresa di più è quella che, nel libro, apre l’atlante delle cento mappe: il racconto degli spostamenti quotidiani di un migrante che abita in un edificio abbandonato vicino alla ferrovia, e ogni giorno percorre a piedi quello che sembra un pellegrinaggio alla ricerca di un lavoro, di un posto dove mangiare, dove fermarsi a riposare, dove trovare aiuto, e si conclude con un segno astratto molto eloquente di quello che è il sentimento che lo accompagna nella sua ricerca infinita.
Le mappe disegnate dai migranti fanno emergere i sentimenti vissuti nel momento in cui si innesca una relazione con il territorio, in cui si inizia ad abitare una nuova città.
Sono strumenti di mediazione: la città si fa pensabile, e dunque diventa famigliare, proprio attraverso il disegno della mappa. Lo spaesamento di chi è appena arrivato non è più dunque solo condizione di estraneità, ma l’origine e la tensione a decifrare lo spazio urbano immettendosi in esso – auto-organizzandolo nel disegno della mappa – per esprimerne la conoscenza e poterlo abitare.
Immaginare e rappresentare la geografia urbana corrisponde al tentativo di abitare mentalmente la città, e attraverso questo gesto, di appropriarsi di uno spazio che da sconosciuto, o provvisto di pochissimi riferimenti, può diventare uno spazio più articolato, più complesso, dove anche chi è arrivato da poco tempo può iniziare a pensarsi come abitante.
La città ideale dei migranti è una città ricca di relazioni, dove i servizi di primo accesso siano in rete, interconnessi in un sistema che complessivamente si prenda cura della condizione transitoria dell’abitare; è una città da poter abitare sempre e ovunque, non solo in alcuni luoghi relegati ai margini e in alcuni tempi prefissati (come sono la maggior parte dei dormitori). E’ una città che si lascia interrogare, che accoglie perché sa mettere in questione la sua stessa identità; una città che si sradica da un’immagine univoca di sé per lasciare spazio alle tante infinite città che prendono forma a seconda del punto di vista di chi le osserva, le vive e la rappresenta.