Rosso nella notte bianca: intervista a Stefano Valenti
Valtellina. Novembre 1994. Il settantenne Ulisse Bonfanti attende Mario Ferrari davanti al bar e lo ammazza a picconate. E, alla gente che accorre, dice di chiamare i carabinieri, che vengano a prenderlo, lui ha fatto quello che doveva.
Erano quarantotto anni che Ulisse mancava da quei monti. Dopo avere lavorato tutta la vita con la madre Giuditta in una fabbrica tessile della Valsusa, è tornato e si è rifugiato nella vecchia baita di famiglia, o almeno in quel che ne è rimasto dopo un incendio appiccato nel 1944.
I ricordi della povertà contadina, della guerra, della fabbrica, delle tragedie familiari, si alternano in una tormentata desolazione. Una desolazione che nasce dal trovarsi nel paese dove, nel 1946, è morta la sorella Nerina.
È la stessa Nerina a narrare quanto accaduto. Uno di fronte all’altra, la neve sullo sfondo, Ulisse e la giovane sorella si raccontano le verità di sangue che rendono entrambi due fantasmi sospesi sul vuoto della Storia.
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato Stefano Valenti e lo ringrazia molto.
Il rosso e il bianco, citati nel titolo, ma poi c’è anche il nero…del fascismo: che significato hanno i colori in questo racconto?
Il rosso e il bianco nascono dall’idea di un quadro di Malevich, dedicato alla Rivoluzione russa e il significato del titolo ha più valenze: il bianco della neve e dell’indifferenza, il rosso dell’ideologia politica e del protagonista e poi c’è il rosso della radicalità contro il conformismo. Il nero dei monti, della notte, del Male: è un colore che ci è stato rubato dal nemico perchè era il colore dell’anarchia, del socialismo rivoluzionario e poi è diventato simbolo di altro.
Nel libro si parla di fede religiosa e di fede politica: ci vuole chiarire il senso che lei ne ha dato nel testo?
E’ una costante nella Storia: l’idea che la radicalità del pensiero cristiano sia stata più volte utilizzata come rotta politica, dal Medioevo al terrorismo rosso degli anni ’70. Il pensiero cristiano ha un aspetto radicale che poi è stato spento dalla Chiesa nei secoli, ma che nel mondo contadino ha una doppia valenza: da un lato la religione è controllo e sottomissione, dall’altro è esempio di rivolta, di lotta contro l’ingiustizia. All’epoca, non essendoci riferimenti ideologici evoluti, le persone leggevano il messaggio di Cristo nel secondo modo.
A proposito di simboli: il nome “Ulisse” non è casuale…
Sinceramente non ci avevo pensato perchè Ulisse, per me, era un nome partigiano perchè i nomi di battaglia erano mitologici o politici.
Quando dipingevo, facevo delle macchie o delle forme che erano un po’ inconsce e la gente ci vedeva dentro dei significati: ho capito che ci sono artisti sinceri e quelli furbi. Io faccio parte dei primi, perchè non avevo pensato al significato del nome proprio del protagonista.
La sua malattia, invece, nasce col personaggio perchè la sua storia attinge da un fatto reale che io poi ho traslato. Nasce dalla vicenda di Giuseppe Bonfanti, mantovano, che nella sua cittadina compie un atto criminale. Io ambiento il fatto in Valtellina e negli anni ’90 – per astrarmi dal contesto storico di riferimento e evitare polemiche sterili di revisionismo – e rendo folle Ulisse per collocarlo altrove: tutto quello che fa, lo fa perchè è allucinato. Tra le malattie psichiche allucinatorie, le visioni religiose hanno un ruolo rilevante: questi malati, soprattutto in passato a causa della loro educazione, vivevano con un enorme senso di colpa che condizionava i loro comportamenti.
Questo piano della follia si intreccia con i discorsi che il Rosso fa con la sorella e con la madre: quanto sono importanti queste due figure femminili?
Ne “La fabbrica del panico” non ero riuscito a parlare del femminile, qui invece sono le figure centrali. Lui è condotto per mano da questi due personaggi e a me è servito il fatto che queste due donne fossero morte perchè i loro fantasmi mi hanno permesso di raccontare la storia al presente e di non fare un romanzo storico perchè volevo parlare della continuità del fascismo nella società italiana come presenza costante di questa idea autoritaria.
Da una parte, quindi, le figure femminili portano l’umanità nella storia, la dimensione tragica del ‘900 e, dall’altra, mi hanno consentito di raccontare il Presente.
Cosa rimane al protagonista e ai lettori di quella rivoluzione, di quell’appartenenza alla lotta ?
La Resistenza è uno dei momenti epici della storia italiana: è stata la più grande rivoluzione civile che l’Italia abbia mai avuto, dopo il Risorgimento. Una minoranza agguerrita – aiutata anche dalle ragioni della Storia – che è stata esempio di un’Italia bella che raramente si mostra. Adesso stiamo attraversando un altro momento buio.
Che cos’è per lei il compromesso?
A livello politico, dal Compromesso storico, nel nostro Paese sono stati fatti sempre al ribasso.
Nella vita quotidiana lo considero un fatto positivo perchè è la possibilità di convivenza, nell’applicazione pratica storica, invece, in Italia il compromesso è un disastro.