Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos
Il 12 febbraio 2015 è iniziato a Roma uno storico processo per i crimini di lesa umanità subiti da 42 italiani sequestrati e uccisi nell’ambito del Piano Condor. Questo accordo segreto tra i governi e le polizie di sette paesi del Sud America è stato realizzato tra gli anni Settanta e Ottanta fuori da qualsiasi alveo costituzionale per reprimere l’opposizione, facendo scomparire un’intera generazione di giovani impegnati nella difesa dei diritti umani. Tra le parti civili del processo ci sono quattro quarantenni: furono rubati appena nati alle loro madri internate nei centri di tortura del Condor, e affidati a famiglie contigue ai regimi per essere educati secondo valori “occidentali e cristiani”. Il libro-inchiesta di Federico Tulli – Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos, edito da L’asino d’oro – parte dal rocambolesco ritrovamento, nel 2014, di una ragazza scomparsa nel 1977, è dedicato ai figli rubati tuttora desaparecidos. Secondo le Nonne di Plaza de Mayo, almeno 70 vivono in Italia senza conoscere la propria storia e non si riesce a trovarli. Perché, come ricostruisce l’autore, le ali del Condor sono ancora aperte. |
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi Federico Tulli e lo ringrazia tantissimo.
Italia e Argentina sono due Paesi legati da un filo rosso: per quali motivi?
Nel mio libro “Figli rubati” uso questa espressione per indicare il profondo “legame di sangue” che unisce i due Paesi. Migrazioni in massa di italiani verso il sud america risalgono al XIX secolo e si protraggono anche nel secolo successivo. Tanto che oggi oltre la metà della popolazione argentina è di origine italiana e rappresenta il maggior gruppo etnico con quasi 25 milioni di persone. E decine di migliaia di argentini dal doppio passaporto hanno ripercorso il viaggio a ritroso, per esempio durante la dittatura (1976-83) e dopo la fine del regime e a causa della lacerante crisi economica di inizio anni Duemila. Ma rossa è anche la lunga scia di sangue che lega Argentina e Italia attraversando il periodo compreso tra l’inizio degli anni 70 e i primi anni 80. In estrema sintesi, si deve all’adesione dell’Argentina al Piano Condor, formalmente sancita nel novembre del 1975 ma di fatto già operativa in segreto almeno da qualche anno, e ai sette anni di dittatura civico-militare instaurata il 24 marzo 1976, la sparizione di circa un migliaio di italo-argentini tra adulti e figli rubati a coppie di desaparecidos. Non mancano poi, purtroppo, italo-argentini nelle file degli oppressori. Di spietati torturatori e assassini ne troviamo a tutti i livelli. Dal generale golpista Orlando Ramon Agosti all’ammiraglio Armando Lambruschini, che prese il posto nel 1978 del collega Eduardo Massera, golpista iscritto alla P2 noto anche per aver trasformato la caserma Esma di Buenos Aires nel lager clandestino da cui scomparirono 5mila persone, e tanti altri. Poi c’è appunto la loggia massonica segreta e fuori legge P2 che aveva diversi iscritti all’interno dei vertici della dittatura (oltre al già citato Massera, il generale Suárez Mason), con il Gran maestro, Licio Gelli, che ordiva trame dalla sua scrivania di economo dell’ambasciata argentina a Roma. Infine vale la pena di ricordare che le sparizioni forzate di migliaia di giovani avvennero tramite i “voli della morte” su aerei venduti dalla Fiat alla giunta guidata dal generale Videla.
Tornando al libro, essendo io un giornalista e non uno storico la mia inchiesta si concentra più che altro sul filo rosso che – tra legami di sangue e azioni criminose – da quegli anni ci porta ai nostri giorni e che riguarda la ricerca dei figli rubati ai desaparecidos condotta oggi in Italia dalle Abuelas di Plaza de Mayo tramite la Rete per il Diritto all’identità. Estela Carlotto, storica presidente delle Abuelas, mi racconta in un’intervista che almeno 60 dei circa 380 nipoti che ancora non sono stati ritrovati potrebbero vivere o essere vissuti nel nostro Paese senza conoscere la propria storia. E “Figli rubati” inizia proprio da Milano, con la storia di un rocambolesco ritrovamento che non avviene in Italia ma che con il nostro Paese ha molto a che fare.
La prima denuncia di ciò che stesse accadendo ai nostri connazionali – e non solo – in Sudamerica fu raccolta da Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica: cosa è successo in seguito?
Prima che l’opinione pubblica italiana avesse una percezione aderente alla realtà di ciò che era accaduto in Argentina dal giorno del golpe in poi dovettero passare diversi anni. Nonostante l’infaticabile opera di denuncia di Italo Moretti, la Rai era avara di notizie. Molto probabilmente per via degli enormi interessi economici in ballo con l’Argentina – ho già citato a titolo di esempio il caso della Fiat -. Ma c’è stata anche la chiara volontà politica di minimizzare agli occhi dell’opinione pubblica le vicende d’oltreoceano, come risulta dalla notevole bibliografia sul tema. La carta stampata – a parte rari casi, tra cui spiccano Saverio Tutino e Franco Recanatesi di Repubblica – era invece condizionata dall’atteggiamento indifferente per non dire omertoso del Corriere della Sera, di fatto gestito dalla P2. La svolta avviene nell’ottobre del 1982. Dopo la pubblicazione delle liste P2 nelle quali figurava l’editore Rizzoli, Gian Giacomo Foa, da anni inviato a Buenos Aires, approfittando di una sorta di vuoto di potere riuscì a pubblicare la prima lista di italiani scomparsi. Foa era in possesso dell’elenco già da anni ma gli era stato impedito di pubblicarlo. Due mesi dopo a dare nuova linfa al processo di informazione sui crimini di lesa umanità commessi in Argentina fu il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Nel discorso istituzionale di fine anno parlò in tv a reti unificate del coinvolgimento diretto di famiglie italiane nell’appropriazione di neonati in Cono Sur. Ma stranamente la sua denuncia non ebbe seguito. Tanto che da un’Ansa dell’aprile 1983 risulta che Pertini tornò di nuovo sull’argomento dicendo che aveva saputo dalle Madres di Plaza de Mayo da lui ricevute diverse volte, di furti compiuti da nostri connazionali appositamente partiti dall’Italia per prendersi dei neonati strappati dalle braccia di giovani madri poi scomparse. Nemmeno questa seconda pubblica denuncia sembra sia mai stata raccolta da chi di dovere. Per lo meno non ve ne è traccia nei giornali dell’epoca e negli anni successivi. Dobbiamo arrivare al 2009, con il viaggio in Italia di Estela Carlotto in rappresentanza delle Abuelas di Plaza de Mayo, per riannodare i fili di una ricerca interrotta bruscamente oltre due decenni prima. È l’anno in cui l’organizzazione umanitaria argentina è riuscita a collegare anche l’Italia alla Rete per i Diritto all’identità estendendo la ricerca dei nipoti rubati al nostro Paese. In accordo e in collaborazione con l’ambasciata di Roma, dove il ministro Carlos Cherniak dirigeva l’Ufficio diritti umani, viene quindi istituito una task forse per raccogliere le segnalazioni o i dubbi di chi, legato all’Argentina per qualsiasi motivo e di età compresa tra i 35 e i 40 anni, ritenesse di non essere il figlio naturale dei genitori con cui è cresciuto. A Roma e nel consolato di Milano è stato quindi creato un team in grado di realizzare il test del Dna a queste persone, per poterlo confrontare con i profili genetici depositati a Buenos Aires appartenenti a familiari dei neonati rubati. In sette anni sono stati eseguiti decine di prelievi ma fino a oggi nessun Dna è risultato compatibile con i 500 profili presenti nella banca dati genetica della capitale argentina. Tuttavia la ricerca in Italia dei figli rubati non si ferma. A portarla avanti contribuisco io con il mio libro oltre che numerose associazioni, tra cui la 24marzo, la Cigl e diverse amministrazioni pubbliche e università che negli anni hanno aderito alla campagna per il Diritto all’identità.
Parliamo di come siano colluse la Chiesa cattolica e la P2 con l’operazione Condor e di quali siano stati gli interessi che l’hanno resa possibile…
Il Piano Condor fu un accordo inizialmente segreto tra le polizie di sette Paesi: Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Cile, Bolivia e Perù. Venne siglato a Santiago del Cile il 25 novembre 1975 tuttavia era già operativo molto probabilmente già dal 1972. Le operazioni avvenivano al di fuori di qualsiasi alveo costituzionale ed erano mirate ad eliminare chiunque si opponesse al progetto socio-politico-economico di matrice clerico fascista e neoliberista che i diversi regimi volevano realizzare. L’adesione al Piano consentiva per esempio alla polizia uruguayana di inseguire e arrestare “sovversivi” uruguayani in territorio argentino; oppure a quella cilena di eseguire rastrellamenti in Bolivia e così via. Trattandosi di un accordo tra polizie, la Chiesa cattolica e la P2 non erano coinvolte. Diverso è il discorso se inquadrato dal punto di vista dei rapporti della Santa Sede o della P2 con le diverse dittature, cioè con i vertici da cui dipendevano anche le polizie che operavano nell’ambito del Piano Condor. Sappiamo che Licio Gelli da anni aveva enormi interessi e profondi legami in Cono Sur, in particolare in Uruguay dove era proprietario di terreni e in Argentina (vantava amicizie con Juan Perón, López Rega, Massera e il presidente Viola per citarne alcuni), e che la P2 contribuì alla realizzazione del golpe del 24 marzo 1976. Risulta chiaro da ricostruzioni storiche ma anche dalle righe che Gelli scrisse all’ammiraglio Massera in una famosa lettera alcuni giorni dopo l’instaurazione del regime, esultando per la nascita di un governo forte in grado di “soffocare l’insurrezione dei dilaganti movimenti di ispirazione marxista”.
Per quanto riguarda la Chiesa il discorso è più complesso. La presenza e la forza politica delle gerarchie ecclesiastiche nei sette Paesi aderenti al Piano non era omogenea. Così come non fu omogeneo l’atteggiamento mantenuto dalle diverse conferenze episcopali nei confronti dei rispettivi regimi. In Argentina quasi tutti i vescovi si schierarono apertamente a fianco della giunta. Anche per questo si parla di dittatura civico-militare e non di dittatura militare (c’era un terzo soggetto rappresentato dai cosiddetti poteri forti economico-finanziari). In Cile, nel Cile di Pinochet, la storia andò diversamente. C’è l’esempio del cardinale di Santiago, Raúl Silva Henríquez, che condannò apertamente la giunta fascista e fu implacabile sostenitore dei diritti umani per tutta la durata della dittatura dal 1973 al 1989. Evidentemente il pericolo marxista non era percepito allo stesso modo dai gerarchi della Chiesa latinoamericana. A Roma invece, in Città del Vaticano, c’era più coerenza. Nel 1981 le Madres di Plaza de Mayo insieme al premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel avevano incontrato Giovanni Paolo II il quale li invitò a «pensare anche ai bambini dei paesi comunisti». Alcuni anni dopo il pontefice fece uno sforzo in più e a Estela Carlotto che gli consegnò un dettagliato dossier sui nipoti scomparsi, rispose: «Pregherò per voi». Non c’è dubbio che, almeno in Argentina, un’azione della della Santa Sede in favore dei desaparecidos avrebbe avuto conseguenze concrete, considerando l’influenza che la Chiesa aveva nei confronti dei militari il cui scopo primario era quello di instaurare un regime fondato su “valori cristiani e cultura occidentale”.
Il saggio parla dei figli e dei nipoti rubati: perché alcuni di loro fanno fatica ad accettare la propria vera identità?
Qual è la “vera identità” di una persona? Quella anagrafica, quella genetica o quella che si realizza a partire dai rapporti affettivi familiari? Personalmente ritengo che l’identità anagrafica sia irrilevante in questo contesto e che l’identità di un essere umano non sia determinata dal legame genetico con i genitori biologici. Il punto è il rapporto affettivo. Quello con i genitori biologici, ai “figli rubati”, fu stroncato sul nascere. Fu negata loro la possibilità di vivere la vita, di formarsi, umanamente parlando, nel rapporto con chi li aveva “voluti”, che aveva passato intere notti a discutere sul loro nome e che li avrebbe accuditi, protetti, amati. Sulla base di un’idea delirante e perversa questi neonati sono stati rubati ai “sovversivi” per interrompere la catena di trasmissione della cultura marxista: andavano inseriti in un ambiente fidato, affinché crescessero secondo “valori cristiani e cultura occidentale”. La definizione è emersa dalle testimonianze nel processo argentino sul “Piano sistematico dell’appropriazione di bambini”. Con questo voglio dire che forse la difficoltà non è tanto nell’accettare la “propria vera identità” quanto realizzare che le persone di cui per anni (in alcuni casi oltre 30) ci si è fidati ciecamente, come qualsiasi figlio fa, per anni avevano mentito in base a una logica disumana, nascondendo una verità orrenda, tragica, devastante. In alcuni casi l’affetto per questi “genitori” è stato più forte dello sdegno – ma forse non è questo il termine più adatto – verso dei criminali responsabili, a volte morali spesso anche materiali, del sequestro, delle torture, dell’omicidio e della sparizione di chi li aveva messi al mondo. «La convivenza con gli apropriadores non è una piuma di cui ci si libera con un soffio» disse una volta Alicia Lo Giudice, una psicologa che per anni ha collaborato con le Abuelas. Ecco, queste secondo me sono le parole che più ci aiutano a comprendere.
Quali leggi e quali percorsi sono stati attivati, in Italia, poter agevolare il riconoscimento dei bambini rubati?
Come detto, dal 2009 è attiva anche in Italia la Rete per il diritto all’identità e questa è certamente una solida base da cui partire. È indispensabile che sia quanto più possibile di dominio pubblico la notizia dell’esistenza in Italia di strutture istituzionali argentine composte da esperti in grado sia di realizzare il test del Dna sia di fornire assistenza e sostegno psicologico ai giovani che affrontano questa “prova”. Ma il ritrovamento dei figli rubati passa anche attraverso il giusto atteggiamento dello Stato italiano. Segnali importanti di sensibilità sono arrivati di recente quando nel 2014 il presidente del Senato Pietro Grasso in visita ufficiale a Buenos Aires ha consegnato al ministro degli Esteri argentino, Héctor Timerman, gli archivi declassificati dalla Farnesina raccolti durante gli anni della dittatura nella sede diplomatica italiana e contenenti centinaia di casi di persone scomparse di nazionalità italiana e italo-argentina. La senatrice Monica Cirinnà mi racconta in un’intervista pubblicata nel libro che «in quelle carte vi sono preziose informazioni fornite da sopravvissuti ai centri di detenzione e da altre fonti, e fitti carteggi, che potranno contribuire a ricostruire storie individuali, a restituire identità a desaparecidos e figli rubati». Altrettanto importante è stata la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu contro le sparizioni forzate avvenuta il 20 agosto 2015. L’esistenza di una legge è vitale in questa difficilissima ricerca ed era francamente inaccettabile l’inerzia e il ritardo dell’Italia di fronte a una delle più odiose e vili violazioni dei diritti umani poiché in questo tipo di desaparicion è lo Stato il primo a negare la dignità della persona. Secondo la definizione delle Nazioni Unite infatti le “sparizioni forzate si verificano nel momento in cui delle persone vengono arrestate, detenute o rapite coattivamente, o private in qualsiasi altro modo della loro libertà da parte di agenti dello Stato, di servizi, gruppi organizzati o soggetti privati che agiscono in nome dello Stato o con il suo appoggio diretto o indiretto, e che si rifiutano di rivelare la sorte delle persone rapite, il luogo in cui esse sono custodite o di ammetterne la privazione di libertà, con la conseguente sottrazione di queste persone alla tutela della legge”. Siamo dunque in presenza di una totale privazione dei diritti che mette la vittima in balia di chi compie il crimine senza alcuna protezione legale. Per non dire poi delle sofferenze inflitte ai familiari di chi scompare – vale a dire nel nostro caso i desaparecidos e i figli rubati ai desaparecidos – costretti a vivere per anni, nel caso del Piano Condor e delle dittature sudamericane per decenni, senza conoscere la sorte dei loro cari.
Il 12 febbraio 2015 è iniziato il processo per lesa umanità: sono sette i Paesi coinvolti. A quali risultati si è già arrivati nel dibattimento e a quali bisogna ancora arrivare?
Il processo si svolge in Italia in virtù dell’articolo 8 del codice di procedura penale che attribuisce al nostro Paese la giurisdizione su fatti che, anche se commessi all’estero, si configurano come delitti politici compiuti da o contro cittadini italiani. Si tratta di un processo molto complesso e non solo perché si occupa di crimini di lesa umanità compiuti circa 40 anni fa. Vi sono 31 imputati di cinque nazionalità diverse che erano ai vertici istituzionali e militari dei Paesi coinvolti, tra questi anche un italo-uruguayano (Jorge Nestor Troccoli) che vive da anni in Campania. Sono tutti accusati di sequestro e omicidio. La tortura in Italia non è reato quindi manca tra i capi d’imputazione. Gli imputati sono tutti contumaci, tranne Troccoli che il primo giorno del processo si è presentato a sorpresa nell’aula bunker di Rebibbia e si è seduto a pochi metri dai familiari di alcune delle sue presunte vittime: 20 giovani uruguayani scomparsi in Argentina tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978. In tutto le vittime cui si cerca di restituire giustizia sono 42, tra cui 22 di origine italiana. Ho seguito decine di udienze durante le quali oltre cento testimoni giunti dal Sud America hanno descritto orrori di ogni tipo subiti dai loro familiari o dai compagni di prigionia in seguito uccisi e in molti casi scomparsi. Sono state esibite prove documentali, è stato fatto riferimento agli Archivi del terrore scoperti nel 1992 in Paraguay da Martin Almada, l’autore della premessa del mio libro, ci sono stati lunghi momenti di forte tensione emotiva, profonde incomprensioni dovute alla lingua dei testimoni (tante declinazioni diverse dello spagnolo), vuoti di memoria. Al momento non è possibile prevedere l’esito finale del processo. È solo ipotizzabile che le sentenze sui diversi casi saranno emesse entro la fine del 2016.