Naga: Noi li aiutiamo in casa nostra. Anche così
Alcune testimonianze del Naga, associazione attiva Milano nell’accoglienza ai migranti, profughi e rifugiati ( e non solo).
Noi li aiutiamo a casa nostra. Anche così.
Arrivo al Naga bardata come se fosse novembre. Piove e fa pure freddo, in questo maggio autunnale. Guardo in sala di attesa e mi colpisce il celeste. E’ il celeste di una canottiera di una ragazzina. Avrà 10 anni, ha una canottiera estiva ed è tutta bagnata. Ci sono anche suo fratello e sua mamma. Sono rom, vivevano vicino a Viale Cassala e ora vivono, invece, per strada. Mi dice la mamma che sono solo loro tre. Non hanno neanche la tenda, una conoscente ce l’ha, ma è troppo piccola e non c’entrano tutti. Dormono per strada e stamani hanno trovato riparo nella nostra sala d’attesa, i bambini disegnano e provano ad asciugarsi. Le magliette però sono tutte bagnate. Al Naga non distribuiamo vestiti, ma vederli così fa venire troppo freddo. Allora gli propongo due vecchie magliette del Naga realizzate tanti anni fa, grigie con il logo verde. Sono troppo grandi e ai bimbi non piacciono. Prendo le forbici e le taglio: così vanno bene. Almeno le spalle sono coperte.
Uno spazio in cui rifugiarsi se fuori piove e si hanno tante cose di cui discutere. Meno male che abbiamo comprato il bollitore: alle ragazze noi offriamo sempre del tè caldo d’inverno e al bar di Via Novara dove chiedevamo di riempirci i thermos con l’acqua calda hanno iniziato a farci storie… Allora abbiamo comprato il bollitore: così chi arriva per primo prepara il tè e lo porta in uscita.
Ieri era domenica e pioveva, e i primi di noi che alle 9.00 sono arrivati hanno potuto preparare qualcosa di caldo per tutti.
Lavagna, fogli per gli appunti, qualche torta per resistere tutta la mattina a parlare di quello che facciamo e di come lo facciamo: Cabiria, l’unità di strada del Naga, nasce nel 1995 e fa informazione e prevenzione per chi si prostituisce.
Diritto alla salute, non discriminazione, empowerment… Stavamo parlando di questo quando un uomo, altissimo, segaligno, con la camicia leggera ancora umida, è entrato.
Aveva bisogno di andare in bagno e la porta del Naga era aperta.
La strada la conosceva, ci ha salutato a bassa voce, come quando entri e la gente parla e non vuoi disturbare ma sei educato e non puoi non farlo.
E a noi, questa cosa che la porta sia aperta, un po’ come a casa, per ritrovarsi a discutere, a bere del tè, a mangiare un boccone, quando fuori non è freddo ma piove, piove in continuazione… Ecco a noi questa cosa qui, questa casa speciale, piace davvero.
Mercoledì pomeriggio. Come tutte le settimane arrivi in Har e ti fai subito prendere dalle varie richieste. A un certo punto ti passano il telefono, una signora che stai aiutando per la richiesta asilo ti chiede se può passare perché la burocrazia ha creato nuovi ostacoli. Le dici che la aspetti più tardi ma ti passa subito di mente: nuovo turno, nuovi utenti, avanti il prossimo. Arriva, un’ora dopo. Ti aggiorna sulla situazione e tu provi a dare delle risposte convincenti. Ci provi sempre. Prima di salutarsi ti dice “Ci sarebbe un’ultima cosa se non ti dispiace” e tu già immagini si tratti di qualcosa di assurdo per cui non avrei una risposta altrettanto convincente. Invece lei ti sorprende tirando fuori un barattolo di dulce de leche fatto in casa come regalo proprio per te perché sa che ti piace, perché sei argentina e ha ragione quando ti dice che ti “scorre nelle vene”. E in questi casi capisci che parlare di “utenza” è estremamente riduttivo.
Torni al Naga dopo una notte in strada piena di vento e densa di parole, di storie e di sguardi. Come sempre, del resto. E, anche se sono quasi le due e domani si lavora, anche se devi ancora pulire il thermos, mettere a posto i biscotti, i preservativi, il faldone con i volantini e tutto il resto, anche se senti che ti stai ammalando e che ci vorrà ancora del tempo prima di addormentarti, ti ricordi che ne vale la pena. Sempre. E che lo spirito di Italo è più vivo che mai. Al Naga. A noi.
Quando vado a chiamare il prossimo utente in sala d’attesa, e nell’angolo vedo due ragazzini, rimango perplesso: non saranno i figli di qualcuno, lasciati lì ad aspettare?
“Per l’avvocato?” chiedo esitando; si alzano subito e mi vengono incontro.
D. ha compiuto 18 anni a gennaio, ma non lo diresti mai: non un accenno di barba, occhi grandi da bambino.
Il colloquio è complicato: nonostante sia qui da più di un anno, di italiano sa poche parole, al Naga c’è confusione, lui parla sottovoce in francese e io fatico molto a capire quello che mi dice; per fortuna l’altro ragazzo – che scoprirò essere suo fratello minore – ogni tanto mi aiuta traducendo qualche parte.
Ad aprile gli hanno revocato le misure di accoglienza: ci facciamo raccontare che cosa è successo, e viene fuori l’incredibile. Ha passato un anno inutile in un “centro di accoglienza” ricavato in un residence poco fuori Trento; in tutto quel tempo, non solo non ha imparato l’italiano, ma non gli hanno neppure fissato un appuntamento per chiedere la protezione internazionale, non gli hanno procurato un permesso di soggiorno (era minorenne, sarebbe stato facile) e di conseguenza non ha carta d’identità né tessera sanitaria: colpa della Questura, dicono, che è intasata e non riesce ad evadere le richieste. All’inizio di aprile insieme ad altri ospiti partecipa a una manifestazione contro questo stato di cose: c’è qualche tensione, ma nessun incidente; qualche giorno dopo, “casualmente” arriva la decisione – durissima – di allontanarlo insieme ad altri ragazzi (lui ci parla di 7 in tutto, la stampa riporta 9); negano che la causa sia la manifestazione, parlano di reiterate minacce (che poi non sono che spintoni) nei mesi precedenti…