Contro il razzismo – Quattro ragionamenti
“Contro il razzismo – Quattro ragionamenti”, saggio edito da Einaudi, purtroppo di stretta attualità: quattro studiosi con competenze diverse provano qui a vagliare i concetti di identità e differenza, a comprendere i diritti dello straniero in Italia, a misurare quanto profonde siano le nostre convinzioni sulle differenze biologiche e culturali e come se ne debba parlare. Guido Barbujani sceglie la prospettiva della genetica per decostruire le presunte basi scientifiche del razzismo; Marco Aime usa un approccio antropologico per comprendere alcune nuove declinazioni, di carattere culturale, assunte da certi razzismi. Federico Faloppa compie un’analisi linguistica, utile a capire gli elementi discriminatori che mettiamo in atto, spesso inconsciamente, usando le parole in un certo modo; infine Clelia Bartoli usa lo sguardo socio-giuridico per comprendere come le insidie del razzismo si celino anche nelle istituzioni “democratiche”.
L’ Associazione per i Diritti umani ha intervistato, per voi, Federico Faloppa e lo ringrazia molto per il tempo dedicato.
Cosa si intende per “razzismo”?
Il razzismo a cui pensiamo è certo, ancora, quello classico, nato nell’800, ovvero il razzismo biologico, che proprio la scienza ha già ampiamente smontato togliendo ogni fondamento al concetto di razza. Conosciamo però altre forme di razzismo, oggi, che non necessariamente si appella alla razza: il cosiddetto neo-razzismo, il razzismo che ha sostituito a (infondate) basi biologiche categorie etniche, culturali, sociali, il razzismo che si basa sul mito delle origini o dell’autoctonia, il razzismo istituzionale – fatto di leggi e pratiche discriminanti, il razzismo “democratico” (come lo ha chimato Giuseppe Faso), meno strutturato ma diffuso nei comportamenti e nel linguaggio, ecc. Queste distinzioni sono spesso artificiose, a livello terminologico: ma individuano bene le mutazioni anche recenti di quel razzismo classico, e fanno intuire non solo la complessità nel descrivere i fenomeni, ma anche la difficoltà nell’affrontarli e contrastarli. Prendiamo il discorso razzista che si basa sull’autoctonia, sul mito delle origini, della terra che è “nostra” e non “loro”: è così radicato da poter influenzare ed ostacolare il dibattito su nuove proposte (ed esigenze) di cittadinanza, “ius soli” vs. “ius sanguinis”, ecc. Oggi smontare il razzismo classico non basta più, quindi: occorre articolare un contro-discorso che smonti l’insieme dei pensieri e delle pratiche razziste in tutte le loro manifestazioni. Per questo abbiamo cercato di scrivere un libro come “Contro il razzismo. Quattro ragionamenti” che affronti il problema da più punti di vista, complementari ma specifici, capaci – mi auguro – di fornire una serie di strumenti e, appunto, di ragionamenti.
C’è chi sostiene che il razzismo si potrebbe delegittimare già eliminando la parola razza dal discorso pubblico…
Sì, e capisco anche il senso di questa proposta: le razze non esistono, e quindi la parola razza non si dovrebbe più utilizzare, a partire dai contesti pubblici, o si dovrebbe eliminare, a partire dal testo costituzionale. Ma il testo della Costituzione italiana è stato scritto in un’epoca precisa e il linguaggio è quello che le appartiene: non sarebbe produttivo, a mio parere, riscrivere l’Art. 3, redatto in un determinato contesto storico, con accurate scelte linguistiche (ne parlo nel mio capitolo all’interno di “Contro il razzismo”); sarebbe invece meglio verificare se e come l’Art. 3 sia stato applicato e venga realmente applicato, e capire quali sono ancora gli ostacoli che impediscono una sua piena applicazione. E quindi, completare con leggi e decreti attuativi i vuoti ancora presenti nella nostra legislazione, ad esempio quelli relativi al “razzismo linguistico” e all’ “hate speech”.
Ovviamente, un aggiornamento del dibattito non deve farci dimenticare che il razzismo “classico” è tutt’altro che scomparso, e che anzi sta riemergendo proprio in questo periodo. Un esempio?
Prima degli esiti del referendum, in UK non c’era stata, dagli anni ’30 in poi, una presenza visibile di movimenti neonazisti. Ma dopo Brexit – sentendosi legittimati dal voto popolare, e senza essere contrastati da istituzioni sull’orlo di una crisi di nervi – alcuni gruppi si sono riaffiacciati sulla scena pubblica con tutto il loro delirante armamentario ideologico, adattato al ventunesimo secolo.
Senza andare troppo lontano, pensiamo a quanto è successo a Fermo nei giorni scorsi: un omicidio “razzista”, malgrado le fastidiose perifrasi usate dai media per evitare di parlare di razzismo.
Cosa c’è alla base del propagarsi, oggi, dei movimenti xenofobi in Europa?
Parto ancora dall’Inghilterra, ma credo che il discorso valga anche per altri Paesi europei.
La paura per lo straniero si manifesta di più nei periodi di scarsità di risorse: scarsità – attenzione – non causata dalla presenza di stranieri (stesse risorse da distribuire a più persone), ma da tagli al budget e scelte politiche di destra ben precise (si pensi ai tagli nella sanità pubblica: se i reparti sono più affollati non è perché ci sono più pazienti stranieri, ma perché il servizio ha subito una contrazione). Il blairismo aveva illuso molti sul fatto che più ricchezza in generale equivalesse a una più equa distribuzione della ricchezza. In realtà, su gran parte della popolazione sono piovute solo le briciole, negli ultimi anni. E ora che neppure le briciole si vedono , il malcontento è maggiormente diffuso. Da qui la caccia al capro espiatorio: da un lato, le elite intellettuali (europeiste), dall’altro gli stranieri. Questo ragionamento, però, secondo me non basta a spiegare i nuovi movimenti xenofobi: ci sono percorsi di lunga durata che affondano le radici nel passato di questo paese (una certa arroganza isolazionista, una scarsa inclusione/rappresentatività delle minoranze etniche nelle élite politiche e culturali), nonché fratture di media durata – dagli anni della Thatcher in poi – che hanno cambiato l’economia del Paese, con investimenti in certi settori e soprattutto nel sud del Paese, e con l’abbandono di intere aree de-industrializzate, e private di servizi e opportunità di sviluppo, prima di tutto sociale. E, infine, non dimentichiamo la paura del terrorismo: una vera fobia che ha fatto aumentare la diffidenza verso alcuni gruppi di stranieri, anche se molti terroristi – come sappiamo – sono nati e cresciuti in UK.
Perchè è sbagliato parlare di “emergenza migranti” e cosa pensa del Migration Copact?
Durante un convegno su Ricerca e migrazioni, organizzato a febbraio a Bruxelles dal Commissario europeo per la ricerca, la Direttrice di Compass Oxford ha fatto giustamente notare che si parla spesso di “migration crisis”, ma in realtà è l’Europa ad essere in crisi davanti a fenomeni che non riesce né a comprendere e né a gestire; quindi l’emergenza è nostra perchè non comprendiamo fenomeni che sono mutati velocemente e profondamente. Pensiamo alle diverse “rotte” verso l’Europa, ai Paesi di provenienza di chi cerca di raggiungere il continente, alle classi sociali coinvolte, alle diverse fasce d’età, alla composizione dei gruppi (nuclei famigliari vs. spostamenti individuali). Da linguista, mi verrebbe da dire che anche sul piano delle risorse lingustiche che potremmo e dovremmo fornire si può fare di più: a quali persone ci riferiamo? Che cosa sappiamo delle loro competenze/conoscenze linguistiche? Come facciamo a garantire loro l’accesso alle informazioni? Non dovremmo prestare forse più attenzione ai network (linguistici) informali e plurilingui, che le persone già usano, e partire da quelli, invece di ragionare ancora in termini di insegnamento/apprendimento di L2 (lingue seconde)? O ancora, tanto per scendere più nel pratico, come facciamo a essere certi che durante i colloqui per la richiesta d’asilo ci siano adeguate competenze linguistiche da parte dell’autorità?
C’è ancora molto lavoro da fare, e ogni ritardo ha – purtroppo – le sue conseguenze sulla vita reale di donne, uomini, bambini…
Quali sono le prossime sfide?
La sfida immediata è quella di salvare più vite possibili. Ma un’altra sfida importante è quella di affermare i diritti inalienabili della persona (tra cui, ad esempio, il diritto alla salute), e di vederli riconosciuti, a prescindere dalle politiche dei Paesi di arrivo e di destinazione. E poi certo – sul piano culturale – continuare a battersi, in qualunque modo, contro ogni forma di razzismo, coordinando a livello nazionale il lavoro dei tanti che già operano in questo senso. E ancora, per quanto riguarda l’Italia: si stralci la Bossi-Fini e si dia un segnale forte sulla cittadinanza approvando in tempi rapidi la legge sullo “ius soli” e con esso ogni sua forma.