Guarire la guerra: storie che curano le ferite dell’anima
“Guarire la Guerra” di Natale Losi (Edizioni L’Harmattan Italia)
Un etnopsicoterapeuta in giro per il mondo per curare comunità e individui ricostruendo storie
Con “Guarire la Guerra ” Natale Losi arriva al suo lavoro più recente dopo una lunga elaborazione delle sue esperienze in zone di conflitto avvenute dal 1993 al 2007 e successivamente in Italia. E’ spinto dall’interrogativo di fondo circa la possibilità di realizzare, nell’ambito della salute mentale, qualcosa di equivalente alle attività di Emergency nell’ambito della chirurgia. Accumula così esperienze sul campo, lavoro clinico e riflessioni che producono un modello di intervento che è insieme clinico e di comunità.
Ringraziamo NATALE LOSI per la sua disponibilità a rilasciare questa intervista ad Associazione per i Diritti umani.
Il saggio parla di alcune esperienze che ha raccolto in Kosovo, Palestina, Colombia e anche in Italia: quali sono i traumi comuni alle persone che ha incontrato e quali, invece, quelli più specifici, legati alle condizioni politiche e sociali dei Paesi in cui vivono?
Più che di esperienze “raccolte”, il libro descrive esperienze “co-costruite”. Preferisco usare questo verbo, perché raccogliere rischia di implicare un’epistemologia destituita di ogni fondamento sin dall’800. Un’epistemologia che pretende ci siano esperti che osservano e definiscono cose “oggettive”. Nel campo dell’umano nulla è oggettivo, tutto è relazionale. Purtroppo, in molte discipline, e tra queste psichiatria e psicologia, tale epistemologia è ancora dominante. Secondo questo modo di pensare lo psicologo o lo psichiatra sono tecnici di un sapere obiettivo e valido universalmente, attraverso il quale possono definire i loro clienti come normali o patologici. Per inciso, cliente è un termine derivato dal latino che significa ascoltare/obbedire: il cliente/paziente deve obbedire. Lo psichiatra pensa di trattare i propri clienti come se avessero qualcosa di standardizzabile: in questo caso un trauma. A furia di ascoltare questi termini, la gente poi pensa che il trauma sia qualcosa di definito, di concreto. Questo genera ancora più confusione. La psichiatria definisce trauma, sia l’evento traumatico, sia la conseguenza dell’evento traumatico. Per cui non ci si capisce più niente. Come spiego nel libro, trauma è un termine che deriva dal greco ed è sempre relativo alle conseguenze di qualche esperienza. Però i greci usavano due verbi differenti per riferirsi a queste esperienze. Il primo è tirò, che si riferisce all’esperienza dolorosa di essere feriti; il secondo è titrosko, che si riferisce invece alla cicatrizzazione della ferita. Come a dire che ci sono eventi traumatici che ti procurano cicatrici che rendono ancora più forte la superfice ferita. Come ho cercato di sottolineare a più riprese nel libro, chi interviene in queste situazioni, come in qualunque contesto sociale, non è in una posizione neutrale, ma contribuisce a costruire il contesto in cui, insieme a tutti gli altri attori, agisce. Se chi interviene pensa di essere osservatore neutrale, con strumenti “scientifici” che – come nel caso degli psicoterapeuti – gli consentono di individuare i propri interlocutori come sani o malati, non lascia alcuno spazio di re-azione ai propri interlocutori. Se invece ci posizioniamo come co-narratori, sarà possibile trovare il modo di passare dalla ferita alla cicatrice. Ovviamente bisogna essere preparati a farlo. Per questo ho ritenuto prioritario fondare una scuola di specializzazione. Ultimamente, anche se non l’ho letto, ho letto attraverso i social media di un rapporto di Medici senza Frontiere, in cui si sosterrebbe che oltre il 60% dei richiedenti asilo sbarcati in Sicilia soffrirebbe di problemi di salute mentale. Se queste informazioni sono davvero presenti nel rapporto, oltre ad essere destituite di ogni fondamento scientifico, sono anche molto pericolose e stigmatizzanti. Per finire di rispondere alla sua domanda quindi direi che tutti i traumi (intesi come reazioni ad eventi traumatici) sono diversi.
Rivolge una critica al metodo psicoterapeutico tradizionale rivolto a persone che hanno vissuto la guerra o l’esilio: ci può spiegare i motivi della sua critica?
È difficile rispondere con chiarezza a questa domanda perché è difficile stabilire cosa sia il metodo psicoterapeutico tradizionale. Per cui suppongo che lei intenda riferirsi alla psichiatria dominante in Occidente. Contrariamente a questa psichiatria io evito accuratamente di fare un’equazione lineare tra guerra, traumi e malattia mentale. Questo tipo di ragionamento è privo di ogni fondamento. Basaglia nel 1975 curò un libro intitolato “Crimini di pace”, con la collaborazione di intellettuali tra i quali Sartre, Goffman, Foucault, Castel, Chomsky ed altri. Tra le discipline accusate di crimini in quel libro, la psichiatria aveva una posizione di spicco. Mi chiedo se una disciplina del genere possa curare qualcuno colpito dalla guerra. Io credo di no. Ci sono moltissime evidenze che ci indicano quanto queste persone possano essere aiutate rafforzando le loro risorse invece che stigmatizzare come malattia mentale reazioni normali a situazioni patologiche. In altri termini è il contesto che va curato, non le persone che ne fanno parte e che in qualche momento della loro esistenza possono esprimere delle difficoltà.
Quale può essere, invece, una strategia di cura alternativa? Nel libro, ad esempio, si fa riferimento al teatro, al gioco, al rito…
Tutti i mezzi che lei elenca sono parte di una strategia per aiutare le persone a riposizionarsi in un contesto che rischia, seguendo la cultura e la psichiatria dominanti, di stigmatizzarli semplicemente come vittime, se non come malati mentali. Ad esempio attraverso l’invenzione della sindrome da stress post traumatico. Il teatro, quando è possibile utilizzarlo, è uno di questi mezzi, ma non sempre è possibile avere a disposizione attori e teatranti. L’importante è trovare il modo di trasformare una narrazione che ammala in una narrazione che cura. Nella mia ipotesi tutte le narrazioni sono riconducibili a quattro assi narrativi: il rapporto tra i sessi, il rapporto tra generazioni, il rapporto tra umili e potenti e quello tra il mondo visibile e quello invisibile. Ciascuno di questi assi può avere delle polarità equilibrate e in armonia tra di loro e tenendo conto della cultura di appartenenza, oppure può essere squilibrato. Nel caso delle esperienze di guerra sono soprattutto gli ultimi due assi a essere squilibrati: quello tra umili e potenti e quello tra visibile e invisibile, nella sua coniugazione di rapporto tra vivi e morti. La funzione della psicoterapia dovrebbe essere quella di collaborare con le persone che ne esprimano un bisogno per trovare possibili co-narrazioni della loro esperienza in modo che possa essere vissuta come dotata di senso, nonostante tutto quello che può essere successo. È evidente che non è semplice come fare diagnosi superficiali o distribuire farmaci, ma molto più utile.
Sembra di evincere anche una partecipazione diretta del terapeuta, come a voler eliminare la dicotomia medico/paziente, noi/loro: è una riflessione corretta?
Quando parlo di co-narrare intendo proprio questo.
Infine: qual è l’importanza della pietra del sogno?
Il sogno, nel caso dell’esperienza della famiglia del muro in Palestina, è un chiaro esempio di influenza del pre-conscio. Mi era stata raccontata a grandi linee la storia di questa famiglia ed io avrei dovuto incontrarla il giorno dopo. È naturale che io pensassi con molta intensità a quella situazione. In particolare a quella donna spaventata che doveva periodicamente chiudersi al buio nella sua stanza. Non riusciva a sostenere l’aggressione dei vicini coloni israeliani che periodicamente lanciavano sassi verso il cortile della sua casa. Mi ero addormentato con questo pensiero e il sogno ha portato una possibile soluzione. L’ho seguita, ma ho poi dovuto collocarla in un contesto narrativo che le desse senso. Infatti, nel lavoro terapeutico, la pietra non aveva solo una consistenza fisica, in particolare quella di essere più dura e di durare di più del muro; ma anche quella di rappresentare l’oggetto simbolico di comunione e continuità con il gruppo terapeutico che era andato in visita alla famiglia. Quest’ultimo aspetto non è stato secondario per il successo della terapia. E l’ho comunicato simbolicamente alla signora palestinese facendo in modo che la pietra le fosse consegnata dopo che aveva fatto un giro tra le mani di tutti i partecipanti al gruppo. Quindi la pietra è stata importante, ma per com’è stata usata, soprattutto per il suo significato simbolico di durezza, resistenza e permanenza di tutti i membri del gruppo con la signora.