Parlare di lavoro: l’ultimo libro di Angelo Ferracuti
Addio. Il romanzo della fine del lavoro, il libro di Angelo Ferracuti, edito da Chairelettere.
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato l’autore e lo ringrazia moltissimo.
Vuole raccontarci come si è svolta la sua ricerca per la stesura di questo libro?
Quando decido di ambientare un mio reportage in un territorio geografico, la prima cosa che faccio è quella di tornarci molte volte, una specie di esplorazione etnografica. Cerco lentamente di mettere a fuoco la situazione che mi interessa ma dentro un contesto più ampio, soprattutto temporale. Quindi per capire la crisi, la sofferenza di Carbonia e del Sulcis-iglesiente, l’effetto domino determinato dalla fine del lavoro e della civiltà mineraria prima, ho dovuto anche connettermi con un sentire, una sensibilità unica che ho trovato in questa terra pieno di fascino, e per questo ho letto molti libri, visto film, documentari, ascoltato canzoni, guardato molti reportage fotografici come quello bellissimo di Catellani. Sono partito da una scaletta di massima che poi è cambiata infinite volte, perché poi a volte la realtà mente e bisogna interpretarla, cercare fonti autorevoli e oneste, cercare con passione e rigore di avvicinarsi il più possibile alla verità storica, al sedimentato antropologico.
Qual era il senso degli scioperi nel Passato e perché oggi si assiste ad una certa mancanza di azione partecipata?
Nel Sulcis, dove proprio perché c’era molto lavoro si è creata la prima comunità multiregionale italiana, si è venuta a creare una delle classi operaie più forte e coese d’Europa, prima per ribellarsi alla schiavitù di una condizione terribile, poi per reclamare diritti soprattutto rispetto alla sicurezza sul lavoro e alla dignità della persona. Non dimentichiamoci che proprio dopo l’eccidio di Buggerru del 1904 fu proclamato il primo sciopero generale nazionale. Oggi ciò che resta di quella classe operaia è ancora coesa e forte, ma non ha più un partito di riferimento, un movimento di lavoratori internazionale, la sua forza politica è stata indebolita da processi generali complessi. Ma nonostante la crisi terribile, nonostante le difficoltà di incidere, anche per la lontananza geografica, questi operai che sono l’anello debole di questa crisi, continuano a resistere e lottare, stanno dentro e fuori le fabbriche, organizzano manifestazioni di protesta. Purtroppo inascoltati dalla politica.
Quale la differenza tra povertà e impoverimento e quali categorie di persone vengono coinvolte?
Questa è una delle contraddizioni che stiamo vivendo, e anche un po’ una guerra tra poveri usata strumentalmente da politici razzisti come Salvini, cioè tra strati della popolazione italiana che perdono status, e migranti che scappano da guerre, epidemie, e chiedono asilo. Da una parte gli occidentali impoveriti, dall’altra i poveri assoluti, che non hanno niente, e anche le contraddizioni legate al consumismo, cioè al fatto di consumare beni assolutamente superflui. Nella zona interessata dal mio libro i più colpiti sono i cinquantenni, le donne, che debbono il più delle volte farsi carico del peso economico e morale della famiglia, e i giovani che non riescono a progettare un’esistenza. La sopravvivenza economica paradossalmente avviene grazie ai pensionati, agli ex minatori.
Vuole commentare per noi la condanna di Carlo De Benedetti per le malattie e le morti per l’amianto in fabbrica?
E’ la dimostrazione che non esiste e non è mai esistito un capitalismo buono. A parte quell’anomalia che è stata l’Olivetti di Ivrea, quella di Volponi e Fortini, Musatti e Gallino. Ma in Italia, appunto, è stata una e per questo ha creato una mitologia.
A suo parere, il job act favorisce l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro ed è utile per equilibrare la sperequazione sociale?
Non è il job act, peraltro iniquo, a creare lavoro, perché il lavoro non c’è per questioni legate proprio al modello capitalistico e alla globalizzazione, alle tante delocalizzazioni che hanno creato anche in Italia desertificazione industriale e disoccupazione, a partire dal caso Fiat, azienda simbolo del capitalismo assistito all’italiana. La legge ha precarizzato ulteriormente, ha dato in mano ai padroni maggiore potere nei confronti dei dipendenti, non ha creato nuovi posti di lavoro, ma in parlamento è stata votata anche dall’ex segretario generale della CGIL Epifani e dall’ex dirigente della Fiom Cesare Damiano, mentre in Francia la protesta ha infiammato le piazze. Quindi mi pare evidente che c’è una problema italiano, e non è solo un problema politico ma soprattutto culturale.