Portami via: un documentario sull’importanza dei corridoi umanitari
L’Associazione per i Diritti umani ha intervistato la giornalista MARTA SANTAMATO COSENTINO (che ringrazia molto per la disponibilità), autrice del documentario intitolato “Portami via”.I Corridoi Umanitari sono un progetto pilota, il primo nel suo genere in Europa, che ha aperto vie di accesso legali e sicure per i richiedenti asilo. Protocollo sottoscritto da istituzioni: Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie e Ministero dell’Interno – Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, ed espressioni della società civile: Tavola Valdese, Comunità di Sant’Egidio e Federazione Italiana delle Chiese Evangeliche. I Corridoi Umanitari promuovono, senza oneri per lo Stato, una campagna di pressione per l’approvazione a livello nazionale ed europeo, di una legislazione che protegga i diritti e la sicurezza dei richiedenti asilo affinché non si vedano costretti ad affrontare illegalmente il mare o la rotta balcanica.
Come e quando ha conosciuto la famiglia di cui racconta nel documentario?
Sono inciampata nella famiglia Maccawi e nella sua storia un pò per caso, come spesso avviene con le persone e le situazioni che, nell’arco di una vita, finiscono per segnare un passaggio, lasciando un segno.
Era l’autunno del 2015 quando, lavorando insieme a Gad Lerner, ho sentito parlare per la prima volta dei corridoi umanitari che, nel giro di pochi mesi, avrebbero portato in sicurezza dei profughi in Italia a bordo di un aereo in partenza da Beirut.
“Se le persone muoiono in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa, invece di piangere altre vittime mettiamo a disposizione dei vivi degli aerei”.
Nulla di più elementare, nulla di più rivoluzionario.
Abitavo a Beirut già da tempo e, una volta tornata lí dove sentivo di essere a casa, ho avuto l’istinto, la curiosità e la giusta dose di presunzione di diventare il diario di viaggio di coloro cui, finalmente, venivano offerte le condizioni per esercitare in sicurezza il diritto a mettersi in salvo. Volevo che i miei occhi, il mio tempo e il mio lavoro diventassero le pagine su cui scrivere una poesia della salvezza di cui desideravo essere testimone. Solo col tempo mi sono accorta che quella storia, quelle storie, fossero diventate anche la mia e per la prima volta mi è sembrato di capire cosa volesse dire Wislawa Szymborska quando scriveva “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”.
Ho conosciuto Jamal e la sua famiglia in un pomeriggio di marzo quando erano già settimane che andavo in giro per il Libano a conoscere le famiglie che sarebbero partite con il secondo corridoio umanitario ai primi di Maggio. Quando sono uscita da quell’appartamento nella parte alta di Tripoli, ho capito che avevo qualcosa di prezioso tra le mani. Quando sono tornata a trovarli a distanza di pochi giorni ho capito che saremmo diventati colleghi di lavoro, compagni di viaggio, compaesani, amici. Ho frugato nelle loro vite, ho cercato di capire che cosa si potesse mai provare nel lasciarsi alle spalle una vita “tra i gelsomini del Levante” per andare verso l’ignoto. Un ignoto più sicuro, certo, ma in cui doversi costruire una nuova identità. Ho cercato di capire che cosa significasse non potersi permettere il lusso della nostalgia, tenendo testa all’abbraccio dell’oblio.
Abbiamo viaggiato da Tripoli a Torino tenendoci per mano perché bisogna migrare, non c’è altro modo, se si vuole avere il privilegio di raccontare come, quando e perchè le persone mettono in pericolo la propria vita per iniziarne una nuova.
Il film è anche una denuncia delle violenze da parte del regime siriano: può anticipare ai nostri lettori quali siano stati i motivi della carcerazione dei membri della famiglia e quali le condizioni in carcere?
Nel suo libro “La conchiglia”, Mustafa Khalifa racconta di aver imparato a scrivere con la memoria, con quella che lui chiama “la scrittura mentale”, una composizione senza carta né penna.
I suoi anni nelle prigioni di Hafez Assad vengono ricostruiti grazie ad un duro allenamento che ha permesso all’autore di “trasformare i pensieri in una sorta di nastro nel quale registravo tutto quello che vedevo e una parte di quello che sentivo”. Ed è dallo scorrimento di quel nastro che emergono l’annientamento, la negazione del dissenso, delle più elementari forme di libertà, della persona che finisce per perdere coscienza anche dei connotati del suo volto. Nelle celle dei regimi infatti non c’è spazio neanche per uno specchio perchè l’estraneità al mondo inizia proprio con l’estraneità nei confronti di se stessi.
“La prigione era il loro laboratorio. Facevamo da cavie e ci sbattevano fuori”. Anche Jamal ha sperimentato che cosa significhi non sapere se arrivederci qualunque si sarebbe trasformato in un addio inconsapevole.
Originario di Waer, uno dei quartieri culla della rivoluzione, racconta della curiosità verso quelle piazze e verso le rivendicazioni che le riempivano e racconta di aver iniziato, insieme ad un gruppo di amici, a portare cibo e medicinali ai civili stretti nella morsa del conflitto.
“Se avessero avuto anche solo la minima prova contro di me o se in qualche modo fossi stato coinvolto nel jihad o se casualmente fossi stato contro il regime, non avresti potuto vedermi qui”.
Le parole con cui conclude la sua testimonianza del carcere e delle torture dimostra come in Siria cosí come in tutto il mondo arabo, per finire in carcere – senza accusa né processo- non serva abbracciare armi o mostrare dissenso.
Talvolta può essere solo il prezzo della solidarietà.
Qual è la situazione dei profughi siriani in Libano?
In Libano, in quel purgatorio tra la Siria e l’Europa, in quel Paese esasperato nelle risorse prima ancora che nello spirito, essere profughi significa esistere senza avere il diritto di farlo. Significa pagare per una tenda, uno scantinato, una baracca sul tetto, significa pagare anche “per l’aria che respiri”. Significa sentirsi stranieri anche quando si parla la stessa lingua. Significa vivere in un campo profughi senza poterlo chiamare cosi perché, per farlo, bisognerebbe quantomeno che la condizione di profugo venisse riconosciuta. Il Paese dei cedri, infatti, non avendo firmato la convenzione di Ginevra, non riconosce lo status di rifugiato e non permette non solo la costruzione di campi profughi strutturati ma nemmeno l’accesso al lavoro. Beirut, cosí come tutto il Libano, è da secoli un crocevia di civiltà e migrazioni. Stratificazioni e cambi di pelle che, respingendosi, hanno frammentato e, allo stesso tempo, costruito il mosaico del tessuto sociale.
Macchie d’olio che, nei secoli, hanno inciso sulla fisionomia, anche urbanistica, del Paese, declinandolo in enclaves. Per ogni enclave, una provenienza e un’identità. Dagli armeni nel 1915 fino ai siriani di oggi, passando per i palestinesi. I siriani di oggi sono, per i libanesi, i palestinesi di ieri quando le tende sono diventate una casa e poi un quartiere che, ancora adesso, continua a crescere verso l’alto.
Alla luce del fragile equilibrio confessionale che struttura non solo la politica ma anche la pace armata, la paura di ritrovarsi davanti ad un nuovo ’48 e quindi davanti ad un nuovo ’75 non giustifica ma è utile a spiegare lo sforzo per mantenere tale una condizione di precarietà non legittimando la presenza di rifugitati sul territorio.
Può spiegare l’importanza dei corridoi umanitari e spiegare perchè, a suo parere, la politica occidentale fa fatica ad istituirli?
I corridoi umanitari non possono, a mio avviso, rappresentare l’unica soluzione alla gestione dei flussi migratori ma servono a smascherare un’ipocrisia perché ci obbligano a domandarci se non sia davvero possibile fare di piú.
Parlare e praticare vie di accesso legali e sicure per i richiedenti asilo non è più solo un’utopia ma una pratica possibile. E le 400 persone che, dallo scorso febbraio, sono atterrate a Fiumicino, sono la prova in carne ed ossa che tutto questo si può fare. Cosí come le migliaia di persone tratte in salvo dalle navi di Medici Senza Frontiere sono la prova vitale che ci siano altri modi di attraversare il Mediterraneo, in sicurezza, senza alimentare i flussi di denaro dei trafficanti di uomini.
Sono al contempo la dimostrazione della forza e dello stimolo della società civile, talvolta, un passo avanti ai nostri governi.