“AFGANISTAN – IL GRANDE GIOCO”
di Ivana Trevisani
Lo spettacolo in cinque episodi, in scena al tealtro Elfo Puccini di Milano non ha restituito agli spettatori un gioco gioioso, come era possibile intuire, ma neppure giocato dal popolo afgano, semplice pedina, nonché purtroppo vittima passiva dall’attività delle diplomazie e dei servizi segreti stranieri, che hanno fatto del Paese la scacchiera delle loro partite di potere.
Guidato dalla notevole abilità di regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani il cast di attori e attrici (Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Emilia Scarpati Fanetti, Leonardo Lidi, Michele Radice, Massimo Somaglino, Hossein Taheri) ha magistralmente restituito la giostra storica di un Paese minuscolo in estensione ma enorme per importanza strategica, sia per governi occidental-colonialisti geograficamente lontani, che per quelli di Paesi tanto vicini da lambire i confini del tormentato angolo di terra.
L’insensatezza di confini e mappe che hanno tentato di costruire il mondo con “carta e inchiostro” e generato non uno stato ma un mostro dai tentatacoli inafferrabili e incontrollabili, offerta sulla scena teatrale, ha inevitabilmente suggerito al pubblico un rimando alla scena reale delle insensatezze contemporanee di medesima matrice d’intenti e di uguale esito distruttivo.
Il carosello storico-culturale ha preso l’avvio dal lontano 1842 con le “Trombe alle porte di Jalalabad” dell’esercito inglese d’occupazione e della tragica, per entrambe le parti in gioco, battaglia/carneficina. Spostandosi alla seconda metà del secolo, il secondo episodio, la “La linea di Durand” sognata e imposta dall’omonimo segretario degli esteri britannico alla fine del secolo, è stato un richiamo molto trasparente ai danni che quell’insensato e non isolato delirio di onnipotenza dell’arbitraria suddivisione del mondo, ha generato e continua a disseminare.
Con il passaggio agli inizi del ‘900 il terzo episodio ha ripreso la triste epopea politica e personale del modernizzatore re Amanullah Khan, ancora una volta vittima dei giochi sotterranei stranieri, impegnati con tragica riuscita ad alimentare e foraggiare lotte e rivalità interne e a difendere alleanze utili ai rispettivi governi.
Gli ultimi due episodi hanno portato il racconto ai tempi più moderni, fino alla contemporaneità in cui gli attori, non della scena teatrale, ma dello scenario politico internazionale sono cambiati, ma i giochi e le strategie di potere e manipolazione sono rimasti gli stessi.
“Legna per il fuoco” ha aperto la scena sul mai abbastanza noto e ribadito ruolo di foraggiamento bellico della CIA e del Pakistan di Zia ai Mujaheddin, utili, con la loro lotta di opposizione ai Russi occupanti, agli interessi politico-strategici dei due governi.
Infine, con “Minigonne di Kabul” la conclusione della vicenda politica e umana di Najibullah, ultimo presidente dell’Afganistan prima dell’insediamento del governo talebano, dai governi dell’occidente abbandonato a sé stesso, come il suo Paese.
Tre ore volate come un battito di ciglia a mostrare l’epopea di un Paese e di un popolo paradigmatica di tante altre tragedie che, in conseguenza dell’insensatezza miope dei potenti si sono avvicendate e ancora si stanno consumando nell’intero mondo e nella storia di troppe vite, troppo spesso vittime incolpevoli.
Con la forte emozione regalata dalla potente intensità dei primi cinque, non resta che attendere i restanti quattro dei nove episodi che costituiscono l’intera opera, commissionata e prodotta nell’aprile del 2009 dal Tricycle Theatre di Londra, previsti sempre all’Elfo Puccini.